Dall'una alle tre

martedì 4 novembre 2008

Non aveva molto tempo per ricordare.
Né per vivere.
Era ormai da qualche mese ricoverata in uno dei riparti più temuti di ogni ospedale, quello da cui hai poche possibilità di uscire con le tue gambe.
Se sei fortunato e hai una bella famiglia, magari ti fanno passare a casa le domenica, rigorosamente in sedia a rotelle, a mangiare le lasagne che tua madre ha cucinato dopo aver radunato tutti per l’occasione.
Ormai sei diventata il pretesto per la pace e l’incontro dei parenti.
Un pò come alle cene di Natale.
Il cancro le stava mangiando, nemmeno poi troppo lentamente, ogni singola pulsione vitale.
L’aveva combattuto a lungo, ma ormai, dicevano, non c’era più molto da fare.
Aveva deciso di morire serena, in una clinica privata, per non dare troppo disturbo in casa.
Quello che era stato di suo marito si era volatilizzato al primo intervento, quando le avevano asportato e ricostruito una parte d’intestino.
E ora i suoi nuovi compagni di vita erano diventati uomini e donne dal camice verde.
Una volta aveva lunghi capelli corvini.
Ora una bandana legata distrattamente alla testa nuda.
Il volto scavato, la carnagione quasi trasparente. Come un fantasma.
Tutto il giorno a letto, spossata.
Leggeva. Aveva voglia di scrivere ma spesso le mancava la forza per poterlo fare.
La sua giornata ruotava attorno a quelle maledette flebo di chemio. Ora le facevano quella rossa.
È la più forte, è quella che vince. Forse anche contro la voglia di vivere.
Dalla mattina presto fino all’una circa.
Tolta la flebo cercava di riacquistare un po’ di quella dignità che i troppi mesi di cure le avevano cancellato.

Puntuale arrivava il suo visitatore preferito.
L’unico che attendeva con impazienza e su cui fantasticava.
Era alto, con due spalle nate apposta per abbracci peccaminosi, capelli corvini, come i suoi di una volta.
Gli occhi cambiavano spesso colore, a seconda dell’umore forse. Dal blu al viola, senza preavviso.
Non si ricordava chi fosse esattamente. Né le importava davvero scoprirlo.
Lui era lì, ogni giorno dall’una alle tre.
Bello come la più audace delle tentazioni.
Trascorrevano quei momenti di pace per i sensi e di calma per il fisico passeggiando nel parco, lontano da quell’odore pungente e pregnante che caratterizza tutti gli ospedali. Quello che ti entra nel naso e scende in gola, ti buca lo stomaco, ma che devi imparare a digerire per forza.
Alle tre in punto lui se ne andava e lei si ritrovava sola, nel letto di quella stanza sterile, pronta a combattere le nausee in arrivo e con un ricordo profumato nel cuore.

20 di giugno 2008. ore 13.
Lui non ha varcato la porta della stanza 14/b reparto di oncologia, casa di cura Humanitas, Milano.
Impaziente lei misurava di continuo la stanza tra porta e finestra, infastidita dal trambusto di medici che passavano di lì correndo, per arrivare chissà dove.
Poi il buio di una notte senza sogni.
La mattina dopo non la svegliarono per la solita flebo.
Forse era il giorno di pausa tra una terapia e l’altra, non se lo ricordava, aveva perso il conto.
Lo vide che le veniva incontro, sorridente e con gli occhi intensi e rassicuranti di sempre. Allora si spostò un poco, per cambiare punto di osservazione, come a volte è giusto fare.
Gli sorrise, perché era in anticipo sul tempo.

(Ora del decesso: 10.42)

2 Comments:

Anonimo said...

Bellissimo...a mio parere il migliore che hai scritto....

Bacio
M

Anonimo said...

Il tuo pezzo più maturo! ;-)
R.