Inchiostro

sabato 27 dicembre 2008

Gli mancava l’odore dell’inchiostro sulle dita.
Ogni tanto nelle notti in bianco e nero quando si metteva scrivere per dare un pò di colore alla sua esistenza, ne immaginava il profumo mentre batteva veloce sui tasti del pc.
Ricordava spesso le nottate passate a scrivere a penna pagine interminabili di pensieri, che lo sfinivano, quando andava a letto con il mignolo destro sporco di inchiostro. Glielo dicevano sempre che aveva un modo terribile di tenere la penna.
Ma gli piaceva così.
E poi del resto era più che altro un discorso di praticità.
Bisogna mettere anima e corpo comodi quando si scrive.

Al pc non provava lo stesso trasporto.
Non era mai stata la stessa cosa.
Ma si era adattato, al passo coi tempi.
Si era adattato sempre nella vita.
Spesso si era seduto sulla panchina vicina al lago per osservare riflesse le immagini dei suoi insuccessi in ogni campo.
Marito infedele, padre inaffidabile, amante collerico, mercenario temibile nel lavoro.
Aveva molti amici si, ma quelli vanno e vengono come le stelle nelle notti di vento. Cresciuto con la ferma convinzione che non esiste nulla di certo a parte la morte, in questa vita. E si era sempre comportato di conseguenza, pestando piedi per arrivare in alto, rubando sogni per poi non sapere cosa farsene, vendendo false promesse e spogliandosi di ogni umiltà.

Solo quando sedeva davanti a una pagina vuota, da riempire con emozioni, tirava fuori la parte migliore di sè.
Viveva da protagonista vite migliori di quella che aveva scelto di vivere, con amori dolci e delicati ricordi da conservare per i momenti più bui.
Si sentiva leggero e libero di scoprire la verità di tutto ciò che aveva, con testardaggine, allontanato.
Si lasciava cullare da tiepide immagini, senza spazio né tempo, fino a cadere.
Con la convinzione certa che si sarebbe rialzato più saggio, più forte, più furbo.

Amava scrivere con la pioggia.
L’odore dell’asfalto bagnato che penetrava dalla finestra lo portava alle estati della sua infanzia, passate a correre a battisella in bicicletta, facendo a gara con i ragazzi del quartiere.
Si partiva dalla scalinata di via Napoli 5 per arrivare in piazza Rossa dove un gigantesco albero di fichi d’india attendeva il vincitore.
Mani nude per i perdenti, che consumavano la loro penitenza sbucciando fichi senza poterli assaggiare.
Nelle giornate di vento era un disastro, le spine che volavano ovunque.

Aveva vinto spesso, le gambe lunghe gli permettevano di pedalare più velocemente.
E tornava a casa, da sua nonna, con in viso il rosso della stanchezza e delle forti emozioni.
Se la ricordava bene sua nonna. Era forse il ricordo più caro che possedeva.
Vestiva sempre di nero, per portare il lutto di una vita fatta di sofferenza.
Ma il sorriso era talmente colorato che a volte si confondeva con l’arcobaleno.
Aveva gli occhi piccoli e vivaci che osservavano infaticabili e senza posa.
Quando era morta gli aveva lasciato in eredità un vecchio e consumato album di fotografie, quello con cui lei andava a dormire la notte, per sentirsi meno sola.

E cosi faceva anche lui.
Lo teneva sul comodino per le notti senza luce, per avere un pò di calore.
Ma non lo apriva mai.
Nemmeno per uno sguardo veloce.
Lì dentro era custodita quella parte della sua vita che aveva scelto di non vivere.
Quelle foto erano il ricordo di affari testardamente tenuti in sospeso con fili di seta e dietro a porte con cardini rotti.


Fortuna quella sera aveva smesso di piovere.