Inchiostro

sabato 27 dicembre 2008

Gli mancava l’odore dell’inchiostro sulle dita.
Ogni tanto nelle notti in bianco e nero quando si metteva scrivere per dare un pò di colore alla sua esistenza, ne immaginava il profumo mentre batteva veloce sui tasti del pc.
Ricordava spesso le nottate passate a scrivere a penna pagine interminabili di pensieri, che lo sfinivano, quando andava a letto con il mignolo destro sporco di inchiostro. Glielo dicevano sempre che aveva un modo terribile di tenere la penna.
Ma gli piaceva così.
E poi del resto era più che altro un discorso di praticità.
Bisogna mettere anima e corpo comodi quando si scrive.

Al pc non provava lo stesso trasporto.
Non era mai stata la stessa cosa.
Ma si era adattato, al passo coi tempi.
Si era adattato sempre nella vita.
Spesso si era seduto sulla panchina vicina al lago per osservare riflesse le immagini dei suoi insuccessi in ogni campo.
Marito infedele, padre inaffidabile, amante collerico, mercenario temibile nel lavoro.
Aveva molti amici si, ma quelli vanno e vengono come le stelle nelle notti di vento. Cresciuto con la ferma convinzione che non esiste nulla di certo a parte la morte, in questa vita. E si era sempre comportato di conseguenza, pestando piedi per arrivare in alto, rubando sogni per poi non sapere cosa farsene, vendendo false promesse e spogliandosi di ogni umiltà.

Solo quando sedeva davanti a una pagina vuota, da riempire con emozioni, tirava fuori la parte migliore di sè.
Viveva da protagonista vite migliori di quella che aveva scelto di vivere, con amori dolci e delicati ricordi da conservare per i momenti più bui.
Si sentiva leggero e libero di scoprire la verità di tutto ciò che aveva, con testardaggine, allontanato.
Si lasciava cullare da tiepide immagini, senza spazio né tempo, fino a cadere.
Con la convinzione certa che si sarebbe rialzato più saggio, più forte, più furbo.

Amava scrivere con la pioggia.
L’odore dell’asfalto bagnato che penetrava dalla finestra lo portava alle estati della sua infanzia, passate a correre a battisella in bicicletta, facendo a gara con i ragazzi del quartiere.
Si partiva dalla scalinata di via Napoli 5 per arrivare in piazza Rossa dove un gigantesco albero di fichi d’india attendeva il vincitore.
Mani nude per i perdenti, che consumavano la loro penitenza sbucciando fichi senza poterli assaggiare.
Nelle giornate di vento era un disastro, le spine che volavano ovunque.

Aveva vinto spesso, le gambe lunghe gli permettevano di pedalare più velocemente.
E tornava a casa, da sua nonna, con in viso il rosso della stanchezza e delle forti emozioni.
Se la ricordava bene sua nonna. Era forse il ricordo più caro che possedeva.
Vestiva sempre di nero, per portare il lutto di una vita fatta di sofferenza.
Ma il sorriso era talmente colorato che a volte si confondeva con l’arcobaleno.
Aveva gli occhi piccoli e vivaci che osservavano infaticabili e senza posa.
Quando era morta gli aveva lasciato in eredità un vecchio e consumato album di fotografie, quello con cui lei andava a dormire la notte, per sentirsi meno sola.

E cosi faceva anche lui.
Lo teneva sul comodino per le notti senza luce, per avere un pò di calore.
Ma non lo apriva mai.
Nemmeno per uno sguardo veloce.
Lì dentro era custodita quella parte della sua vita che aveva scelto di non vivere.
Quelle foto erano il ricordo di affari testardamente tenuti in sospeso con fili di seta e dietro a porte con cardini rotti.


Fortuna quella sera aveva smesso di piovere.









Identità rubate

giovedì 27 novembre 2008

La prima volta la incontrai di notte. Camminava sola, con lo sguardo puntato a terra, fisso ai piedi.
Il soprabito blu era di due misure, almeno, più grande. Se lo teneva stretto in vita, come l’abbraccio di un innamorato, cercando di non perderlo.
Passavo da lì distratto, dopo il turno di notte, credo. Procedendo con passo spedito verso casa.
Mi sorrise.
“Hai da accendere?”disse.
“Mi rincresce, non fumo” risposi.
“Buon per te. Grazie lo stesso”.
Mi ritrovai a fissare quella piccola bocca deforme come fosse stata la cosa più bella mai vista in vita mia.
Imbarazzato, ripresi la mia marcia da soldato. Senza fretta però.

La settima dopo, feci cambio turno con un collega.
Gli rubai il giorno.
La trovai ad aspettarmi sotto la pensilina dell’autobus per il centro.
Mi si avvicinò canticchiando.
“Ti accompagno volentieri se vuoi” disse.
“E’che vado a prendere un caffè con degli amici…” risposi senza nemmeno guardarla negli occhi.
Mi sorrise e si allontanò facendomi un cenno con la mano.

Il giovedì sera successivo portai mia moglie e mia figlia a vedere la partita di basket organizzata dalla mia azienda, per raccogliere fondi a favore dei malati di Alzheimer, credo.
La vidi sugli spalti di fronte. Abbozzò un cenno di saluto.
Ma io non ricambiai.

All’incirca un anno dopo mia moglie mi lasciò, portando con sé la nostra bambina.
La vidi scendere in strada, con le valige e gli scatoloni ingombri di ricordi che forse nemmeno le appartenevano. Non feci nulla per fermarla.
Quella notte girai un paio di locali in cerca di quell’oblìo che solo le grandi sbornie sanno dare.
Riconobbi la piccola bocca deforme, da lontano, credendo fosse un miraggio.
Mi avvicinai e con la lingua ingarbugliata riuscì a domandarle: “Dormi con me questa notte?”
Lei sorrise e senza sorpresa declinò, stringendosi nell’abbraccio scuro del suo soprabito di due misure più grande.

Sono qui da qualche settimana, credo. Ma a giudicare dalla familiarità con cui mi trattano potrebbe essere anche da più tempo.
Divido la stanza con Marina, una vecchia dispotica di 70 anni ormai priva di lucidità da qualche anno. Sono l’unico uomo presente in questo piano. Medici a parte.
Socializzo poco qui dentro. Mi sembrano tutti pazzi.
Viene spesso a trovarmi una giovane donna con un soprabito blu. È talmente evanescente da sembrare irreale a volte. Forse è mia figlia.
È una bella donna. Anche se ha la bocca storta e quando mangia qui con me, la domenica, sbrodola dappertutto.
La sgrido di continuo ma mi sorride sempre. Mi è capitato di sentirla parlare con qualche medico di deterioramento cognitivo cronico progressivo. È gentile ad interessarsi di Marina, penso.
Ieri le ho chiesto di sua madre. L’ultima immagine che ricordo di lei è quella di un taxi giallo che la porta via. Mi ha sorriso e sistemato i capelli senza dire una parola, nascondendo a stento le lacrime.
Non ho avuto il coraggio di domandarle più nulla di quella vita che non ho potuto condividere con loro.
Anche se a volte la curiosità, in quei rari ed ultimi momenti di sanità mentale , mi avrebbe forse aiutato a non incorrere in spiacevoli sorprese.

Chi sono e perché mi trovo qui ancora non l’ho capito. La mia mente mi regala immagini che forse nemmeno sono reali. Forse lo sono state un tempo, o forse no. Ma non lo posso sapere con certezza, perché nessuno risponde alle mie domande.
A volte, da sveglia, sogno di essere una donna a cui i demoni del passato hanno rubato l’identità, in un giorno che ha il colore della notte.
Vivo in un’alba che assottiglia il confine tra il reale e l’immaginato. Dove non esiste distinzione di sesso, né di ruoli. Dove la donna è uomo, è padre, è madre, è marito, è figlia.
E dove tutti sono soli con sé stessi.
Poi chiudo gli occhi. E, per un istante, mi riconosco.

Natale che dorme

giovedì 20 novembre 2008

È un Natale che dorme.
Senza emozioni e senza ricordi, smarriti attraverso il tempo che scorre.
L’ho visto per l’ultima volta sulla riga dell’orizzonte, tendendo l’orecchio verso quel mare, sempre imprevedibile. Se l’era mangiato in un sol boccone mentre stava ricurvo sulla sua barca, in attesa di tirare a bordo la rete.
E mi ha lasciata sola in questo piccolo paese di pescatori, dove il tramonto ti toglie il respiro, dove i gabbiani cantano tutto l’anno, dove le rondini non migrano.
Qui. Dove il mondo finisce.
È un Natale senza stelle.
Senza una luce che indichi la riva. L’approdo, per non morire.
È un Natale senza luna.
Dove il cielo si confonde, nero, nel mare blu.
Tutti, qui, festeggiano la nascita, mentre io respiro la morte.
Ripenso alle tiepide sere d’estate, al rosso del tramonto, ai gabbiani che planano su quella distesa d’acqua assassina. Ricordo l’odore del pesce appena pescato e ancora agonizzante, con gli occhi tristi.
E lui che mi sorride sereno, come chi vive credendo che nulla possa finire.
È un Natale che dorme ma che è anche un po’ sveglio, ad assistere il cielo che, invece, non dorme mai.

Dall'una alle tre

martedì 4 novembre 2008

Non aveva molto tempo per ricordare.
Né per vivere.
Era ormai da qualche mese ricoverata in uno dei riparti più temuti di ogni ospedale, quello da cui hai poche possibilità di uscire con le tue gambe.
Se sei fortunato e hai una bella famiglia, magari ti fanno passare a casa le domenica, rigorosamente in sedia a rotelle, a mangiare le lasagne che tua madre ha cucinato dopo aver radunato tutti per l’occasione.
Ormai sei diventata il pretesto per la pace e l’incontro dei parenti.
Un pò come alle cene di Natale.
Il cancro le stava mangiando, nemmeno poi troppo lentamente, ogni singola pulsione vitale.
L’aveva combattuto a lungo, ma ormai, dicevano, non c’era più molto da fare.
Aveva deciso di morire serena, in una clinica privata, per non dare troppo disturbo in casa.
Quello che era stato di suo marito si era volatilizzato al primo intervento, quando le avevano asportato e ricostruito una parte d’intestino.
E ora i suoi nuovi compagni di vita erano diventati uomini e donne dal camice verde.
Una volta aveva lunghi capelli corvini.
Ora una bandana legata distrattamente alla testa nuda.
Il volto scavato, la carnagione quasi trasparente. Come un fantasma.
Tutto il giorno a letto, spossata.
Leggeva. Aveva voglia di scrivere ma spesso le mancava la forza per poterlo fare.
La sua giornata ruotava attorno a quelle maledette flebo di chemio. Ora le facevano quella rossa.
È la più forte, è quella che vince. Forse anche contro la voglia di vivere.
Dalla mattina presto fino all’una circa.
Tolta la flebo cercava di riacquistare un po’ di quella dignità che i troppi mesi di cure le avevano cancellato.

Puntuale arrivava il suo visitatore preferito.
L’unico che attendeva con impazienza e su cui fantasticava.
Era alto, con due spalle nate apposta per abbracci peccaminosi, capelli corvini, come i suoi di una volta.
Gli occhi cambiavano spesso colore, a seconda dell’umore forse. Dal blu al viola, senza preavviso.
Non si ricordava chi fosse esattamente. Né le importava davvero scoprirlo.
Lui era lì, ogni giorno dall’una alle tre.
Bello come la più audace delle tentazioni.
Trascorrevano quei momenti di pace per i sensi e di calma per il fisico passeggiando nel parco, lontano da quell’odore pungente e pregnante che caratterizza tutti gli ospedali. Quello che ti entra nel naso e scende in gola, ti buca lo stomaco, ma che devi imparare a digerire per forza.
Alle tre in punto lui se ne andava e lei si ritrovava sola, nel letto di quella stanza sterile, pronta a combattere le nausee in arrivo e con un ricordo profumato nel cuore.

20 di giugno 2008. ore 13.
Lui non ha varcato la porta della stanza 14/b reparto di oncologia, casa di cura Humanitas, Milano.
Impaziente lei misurava di continuo la stanza tra porta e finestra, infastidita dal trambusto di medici che passavano di lì correndo, per arrivare chissà dove.
Poi il buio di una notte senza sogni.
La mattina dopo non la svegliarono per la solita flebo.
Forse era il giorno di pausa tra una terapia e l’altra, non se lo ricordava, aveva perso il conto.
Lo vide che le veniva incontro, sorridente e con gli occhi intensi e rassicuranti di sempre. Allora si spostò un poco, per cambiare punto di osservazione, come a volte è giusto fare.
Gli sorrise, perché era in anticipo sul tempo.

(Ora del decesso: 10.42)

La fata del sorriso

venerdì 24 ottobre 2008

Girava sempre con una borsa a tracolla.
Per dispensare sogni, diceva.
La chiamavano la fata del sorriso.
Fin da bambina si era distinta per le sue doti e la sua sensibilità.
Si diceva che avesse il dono di san Francesco e parlasse con gli animali.
Quando la conobbi io aveva già il viso segnato dalle rughe del tempo e il capo cosparso di morbidi capelli grigi, che teneva raccolti in una crocchia perché ormai non erano molti.
Ma il sorriso… quello non aveva subito mutazioni.
Ero lo stesso di un tempo che aveva fatto innamorare mille soldati. Lo stesso che, con grazia, aveva consolato le nuove giovani vedove regalateci dalla guerra.
Lo stesso che aveva abbracciato pietoso e magnanimo le delicate anime di bimbi rimasti orfani.
Lottava con il suo sorriso contro ogni tipo di dolore.
Andava vagando di paese in paese, di città in città con la sua tracolla colma di sogni da regalare, di sorrisi da condividere.
Non domandava denaro.
Si accontentava di una saponetta per lavarsi e un pasto frugale per rinvigorire il corpo e lo spirito.
Raramente tornava nello stesso posto.
Viaggiava a piedi. Ogni tanto – diceva - approfittava della squisita gentilezza di un mulo o di un asino che andavano nella sua direzione.
Mai troppo spesso, però.

La conobbi a casa di Fernanda, in quella gelida sera d’inverno, in cui nessun viandante mai avrebbe pensato di mettersi in cammino.
Attaccate alle caviglie delle piccole campanelle che musicavano ad ogni suo passo.
La tragedia di quella indimenticabile giornata la portò da noi.
Fernanda aveva partorito due gemelli.
Morti.
Nove mesi di attesa per dare alla luce due minuscoli corpicini senza un alito di vita.
A quei tempi avevo sentito parlare di lei, ma avevo sempre creduto si trattasse di una di quelle leggende fantastiche che viaggiano di bocca in bocca e di generazione in generazione, arricchendosi sempre più di particolari.

Non bussò nemmeno.
La porta era chiusa con un chiavistello e mai capimmo come fosse riuscita ad entrare, né mai avremmo avuto il tempo di domandarglielo.
La trovai in cucina che preparava torte alla frutta.
Mi rassicurò dicendomi che avrebbe pensato lei a tutto.
“La fortuna arriva sempre prima o poi, bambina mia. A volte assume strane forme e colori di cui non conosciamo l’esistenza, ma è un dono e non possiamo rifiutarlo.”
Parlò con una sicurezza tale e con un tono delicato e suadente che fui come ipnotizzata. E rimasi lì imbambolata e tacitamente sorridente, senza riuscire a dire nulla.
Felice che, in quella fredda giornata di pioggia per l’anima, il suo calore fosse stato capace di strappare un sorriso.

Da bambina già sapevo che avrei fatto la levatrice.
Era il mestiere di mia nonna, di mia madre e sarebbe stato anche il mio.
Non eravamo state fortunate in quanto a uomini in famiglia.
Mio nonno faceva l’agricoltore. Lo trovarono a faccia terra nei campi con un buco di sangue al posto del cuore.
Nonna diceva che era stata l’invidia, perché la nostra era la vigna più bella di tutta la regione.
E così ho sempre pensato che l’invidia, dal momento che aveva bucato il cuore al nonno, fosse davvero una malattia grave ed incurabile. Cosa per altro poco distante dalla realtà.
Rimasta sola, mia nonna si rimboccò le maniche per crescere le sue quattro piccole bambine.
In tempi in cui non esisteva un lavoro se non eri capace di inventartelo.
Una delle sue figlie, che mai ebbi il piacere di conoscere, morì di pazzia, mi raccontarono.
Si innamorò di un soldato.
Aspettò per anni il suo ritorno e quando la guerra finì lui tornò per dirle che aveva trovato moglie in un’altra terra. E lei impazzì.
Si buttò da una rupe urlando il nome di lui.
La secondogenita, Margherita, crebbe sana fino all’età di dodici anni, poi si concesse ad un giovane pastore e prese una malattia proprio lì, da dove, poi imparai, nascono i bambini. Morì dissanguata in una sera d’inverno simile a quella in cui conobbi la fata del sorriso.
La terza figlia, Teresa, ebbe salute cagionevole fin da piccola.
Un inverno troppo freddo la mise a letto e non si alzò più.
La quarta figlia, mia madre.
D’animo mite ma di costituzione robusta aiutò mia nonna a sopportare tutte le disgrazie che la vita le aveva riservato.
A tredici anni si fidanzò con mio padre, il figlio del porta lettere.
Si sposarono ed ebbero una sola figlia. Io.
Ho un vago ricordo di papà.
Troppo piccola quando partì per la guerra. E troppo piccola quando ricevemmo la lettera che mai più sarebbe tornato.
Ma era stato un bravo figlio, e un marito premuroso, nonché un padre affettuoso, raccontavano.
Mi bastava questo per mantenere vivo un ricordo che nemmeno poteva essere mio.

Nonna per sbarcare il lunario si improvvisò una brava levatrice.
Esperta di erbe, per nulla schizzinosa, forte di stomaco, era donna capace di risolvere ogni situazione.
Aveva sempre accudito i nostri cavalli e aiutato le giumente a partorire.
E così pensò che avrebbe potuto farlo anche con le donne.
Prima di me, diverse centinaia di bambini avevano visto la luce tra le sue morbide braccia.

Quando le mani di mia nonna si piegarono ad uncino per l’artrite, mia madre già da tempo l’aveva sostituita nell’arte del far nascere bambini.
E lo stesso feci io con mia madre, quando venne il mio momento, perché tutto è scritto.
Ogni tanto, fin da piccola, la seguivo nelle case delle donne gravide per apprendere i primi rudimenti di quella che, presto, sarebbe diventata la mia arte.

Fino al giorno in cui Fernanda partorì i due gemelli io non mi ero mai innamorata se non degli occhi socchiusi della vita che nasce, prepotente e inquieta, dal ventre di una madre.
Non avevo mia conosciuto la passione che porta al concepimento.
Molti mi avrebbero voluto. Ma, tenace, li avevo sempre respinti.
Mi faceva impazzire il pensiero che per un instante di piacere avrei potuto soffrire come le donne che avevo sempre assistito nel parto.
Molte persino erano morte di dolore.

Come Fernanda quella sera.
Perché partorire due figli, morti, vuol dire morire.
Il cuore si ferma, l’anima urla, ma la voce è rotta in gola, soffocata dal pianto.
Non esistono parole. Non servono preghiere.
Non esistono erbe per alleviare il dolore dell’anima disperata.
Così pensavo io fino a quel giorno.
Fin quando non arrivò lei, con il suo delicato scampanellio ai piedi.
Ancora oggi - e sono passati davvero molti anni - il ricordo è chiaro come se fosse ieri.

Il profumo delizioso delle torte alla frutta mi aveva attirato in cucina.
Avevo lasciato la giovane Fernanda sdraiata a letto, a piangere sui copri inerti di quelle che per nove mesi erano state le sue speranze di un futuro di madre da sempre desiderato.
La trovai con le mani sporche di farina e il suo sorriso ipnotico.
Mi rassicurò sulla salute della ragazza e si complimentò con me per il lavoro svolto.
Poi mi disse: “Adesso và di là , pettinale i capelli in una lunga treccia e portala da me.
C’è un tempo per il dolore e la tristezza e un tempo per la gioia e le risate.”
Andai annuendo nella stanza da letto.
Accarezzai in viso Fernanda e le pettinai i lunghi capelli così come mi era stato ordinato.
La aiutai ad alzarsi e la sostenni sotto al braccio fino ad arrivare in cucina. Troppo stanca lei e con il cuore pesante per opporsi alla mia volontà di portarla, a forza, verso quel profumo di torte alla frutta, verso il calore di una nuova vita che stava iniziando, per entrambe, inconsapevole.
Si salutarono come due vecchie amiche che non si vedono da troppo tempo.


Fernanda si sedette sulla sua sedia preferita e guardando la tracolla che spuntava dal grembiule imbrattato di confettura e farina, fece un timido sorriso.
Allora la fata le porse una fetta di crostata.
Lei, timida, ringraziò e ne assaggiò, debole, un piccolo morso.
Mi guardò e iniziò a ridere.
Rideva a crepapelle, come fosse impazzita tutto ad un tratto.
Rise fino alle lacrime, contagiando non solo me, perfino i maiali nella stalla che cominciarono a grugnire e il gatto sulla poltrona che cominciò a miagolare senza posa.
La fata sorridendo si tose il grembiule e iniziò a volteggiare per la cucina come se fosse sul palco di qualche piazza animata da saltimbanchi.
E noi a ridere, con le lacrime agli occhi e i singhiozzi.
Nel giro di pochi minuti la cucina era diventata un andirivieni di gente mai vista che entrava e usciva ridendo a squarciagola e raccontando aneddoti esilaranti che rasentavano la follia.

Toccò a me.
Mangiai e risi e raccontai, storielle sconce che ora come ora mi vergognerei perfino a ripetere.
E incrociai il suo sguardo.
Profondo e invadente. Non mi dava tregua.
Smisi per un secondo di ridere.
Tutti smisero di ridere.
In pochi attimi la cucina si spopolò, e rimanemmo soli.
Io e quell’uomo mai visto.
Bellissimo nella forza del suo sguardo.
Non ci furono parole, solo respiri.
Mi trovai sporca di farina e calda in mezzo alle gambe senza sapere come.
Conobbi per la prima volta la passione vera.
La stessa che aveva fatto impazzire quella mia zia morta prima che io nascessi, che aveva torturato mia nonna quando aveva trovato suo marito con un buco di sangue al poso del cuore nella vigna, che aveva depredato mia madre di ogni gioia di vivere quando ricevette la lettera del non ritorno.
Due corpi nudi, tra profumo di torte ed echi di risate appena sfornate.
Se ne andò sorridendomi.
Mi stavo scrollando la farina dai capelli quando entrò la fata.
Mi passò una mano sul ventre e mi disse: “ Ricorda,i doni non si devono mai rifiutare, bambina mia.”
Aprì la tracolla e mi regalò uno dei suoi campanelli.

Oggi ho fatto nascere il quarto figlio di Fernanda.
L’ho preso in braccio un secondo per presentarlo alla mia bambina che è qui con me.
Lei gli ha sorriso come angelo, ha aperto la sua tracolla e gli ha regalato uno dei suoi campanelli.

A volte capita

martedì 14 ottobre 2008

Quando si svegliava la mattina con i seni piccoli, sapeva già che non era giornata.
A volte riusciva a passarci sopra, altre proprio no.
Come quella mattina.
Fuori faceva un freddo cane, il vento soffiava sbattendo violentemente sulle persiane, accostate per fare entrare un briciolo di luce.
Infastidita, infreddolita e con il seni piccoli.
Un’altra giornata di merda, forse.
Si era lavata e vestita velocemente ma con cura.
Senza ombrello era corsa giù dalla scale per non perdere l’autobus.
Il 31 passava sempre in anticipo.
Erano le 5.30.
A quell’ora Genova dormiva ancora.
Iniziava al lavoro un quarto alle sette. Ma non sopportava fare tutto di corsa.
Aveva bisogno di tempo per realizzare che tipo di giornata stava per vivere.

Da quando l’aveva incrociato, quel lunedì mattina, non aveva più potuto ignorare l’esistenza del suo sguardo.
Aveva cominciato a cercarlo senza posa, nella sua testa e tra le vie di una Genova che di solito non frequentava. Con costanza, persino nelle giornate coi seni piccoli.
A metà novembre l’aveva trovato su una banchina del porto, dove, aveva scoperto, dormiva la notte, tra un container e l’altro, cullato dal vociare amico dei marinai con cui divideva spesso birra e avanzi di cibo.
La mattina saliva sul primo autobus che collega il porto al resto della città.
Era il 31 e la prima corsa era alle 5.30.

Avrebbe voluto avere il coraggio di un gesto di disperato egoismo mosso dall’assurda esigenza di poterlo incontrare con continuità.
Avrebbe voluto che si trattasse di un oggetto qualunque, per comprarlo, o di una casa di quelle che ogni giorno mostrava a potenziali coppie felici, per abitarci.
Era un uomo di circa 35 anni, forse meno, con il viso segnato da una vita di insuccessi e di violenze.
Una profonda cicatrice dalla fronte arrivava fino al collo e gli divideva il volto a metà.
Mille volte avrebbe voluto domandargli come se l’era procurata, nella speranza di poter alleviare un dolore bruciante, forse già superato.

I loro sguardi si appartenevano dal lunedì al venerdì, per qualche secondo, sul loro autobus. Lei saliva e gli sedeva accanto.
In silenzio, finchè non si alzava per scendere quattro fermate più in là, lasciandolo solo nel suo viaggio senza meta.

Immaginava spesso di condividere con lui una quotidianità non reale, di fare l’amore con violenza sulla scrivania, in ufficio, mentre le altre erano fuori per la pausa pranzo e lui arrivava sorridente in doppio petto blu.

Bruciata dall’ossessione, come la pelle sotto il sole delle due di pomeriggio a ferragosto, aveva deciso di rompere il silenzio.
Era andata a letto presto quella sera, per svegliarsi riposata e in forma.
E si era svegliata in una di quelle mattine no, dai seni piccoli.
Si era lavata e vestita velocemente ma con cura.
Senza ombrello era corsa giù dalla scale per non perdere l’autobus.
L’aveva preso, anche se il 31 passava sempre in anticipo.

Ma lui non c’era, in quella mattina dai seni piccoli.
E nemmeno il giorno dopo e il giorno dopo ancora.
I loro sguardi non si mescolarono più.

Le piaceva pensare che si fosse innamorato di un’altra.
A volte capita.

Il più bello dei mari

domenica 28 settembre 2008


Il più bello dei mari
è quello che non navigammo.
Il più bello dei nostri figli
non è ancora cresciuto.
I più belli dei nostri giorni
non li abbiamo ancora vissuti.
E quello
che vorrei dirti di più bello
non te l'ho ancora detto.
(Nazim Hikmet)

[N.d.A: Ogni promessa è debito! ;)]


L'uomo del futuro

domenica 21 settembre 2008


Adesso vi racconto questa storia.

Lui è l’uomo del futuro.
Non perché sia uno di quelli d’innovazioni tecnologiche o più semplicemente di pensieri che galoppano alla velocità della luce.
Lui è l’uomo del futuro perché parla solo al futuro.
Almeno con me.
Andremo, vedremo, faremo…
Fa l’avvocato per un piccolo studio associato di una grande città. Non è iscritto all’albo, ma mi dirà poi il perché ‘de visu’.
Io immagino che ancora non abbia superato l’esame di stato.
Ma alla fine non è che abbia poi questa grande importanza. Per me rimarrebbe in ogni caso l’uomo del futuro.
In due mesi di condivisione di tempi futuri non ho ancora capito nulla di lui.
È abile simulatore di umori e circostanze.
A volte lo sogno.
E a volte nel sogno azzeriamo le distanze.
Sono convinta che sia un amante eccezionale.
Per questo mi immagino spesso la sua testa tra le gambe. Il mio desiderio raggiunge proporzioni disumane. E il cuore è sul punto di spezzarsi.
Poi mi riprendo.
Nella lucidità che si addice a chi è capace di guardare indietro, al passato, e di avanzare con un piede davanti all’altro per gustare il presente. In attesa di un futuro che arriverà presto, non fittizio.

Io non sono la donna del futuro.
Per quanto io abbia una forte propensione alla tecnologia e pensieri che sempre galoppano alla velocità della luce.
Ho sempre creduto di essere un po’ la donna del passato.
Attaccata fortemente ai ricordi profumati della mia anima graffiata dal tempo.
Ora che ho conosciuto l’uomo del futuro lo so che non è cosi, che non sono la donna del passato intendo.
Vivo in una dimensione senza spazio né tempo propriamente definiti.
A volte il mio problema è che attraverso la vita di corsa come se qualcosa o qualcuno mi stesse inseguendo.
A volte invece godo per la lentezza degli istanti che hanno vinto contro il tempo e che non passano mai.

Oggi ho deciso così: preferisco essere una donna senza spazio né tempo, che la donna del tempo futuro.
Forse lui questo lo teme. E forse anch'io.

Uno in più

sabato 20 settembre 2008

La mia voce sta cantando
ma sono pochi ad ascoltare
i gabbiani stan gridando per poterla soffocare
altre voci piano piano stan crescendo da lontano
se il mio canto vuoi seguire
puoi cantare...(..)

Lungo spiagge sconosciute
siamo in tanti a camminare
con le lacrime negli occhi con il sole dentro al cuore
se sei stanco di lottare
vieni qui a riposare
se non sai piu' cosa fare
puoi cantare.
(...)

(Lucio Battisti)

Carne alla griglia

giovedì 11 settembre 2008


Mi credevo fortunata, nonostante tutto, a volte.
Mi sedevo al fresco, cullata dal rumore delle foglie del grosso faggio, ad osservare il colore della memoria che cambiava d’intensità con il passare dei giorni.
Non era successo nulla di reale, forse. Ma vivevo come se fosse accaduto di tutto.
Questo perché quando raccontiamo a noi stessi una storia, spesso la raccontiamo seguendo le sensazioni verosimili prodotte dal ricordo e l’immagine che ne conserviamo non è sempre perfettamente coerente con quel che in realtà è accaduto.

Ci eravamo conosciuti in un pomeriggio di mezza estate.
Sporchi e sudati e con l’odore della carne arrostita alla griglia sui vestiti.
Senza nemmeno parlare ci eravamo presi per mano e avevamo cominciato a correre, stando attenti ai gradini formati dalle radici degli alberi che si allungavano dalla terra.
Il cartello diceva area griglia.
Erano tutti là. Ad ingozzarsi di costine di maiale e trangugiare vino scadente. Del resto non si possono bere buoni vini in un campeggio a ferragosto. Birra per qualcuno.
A dieci anni, dopo che di costine ne hai mangiato un po’ e ti sei divertito a sputare i semini dell’anguria più lontano possibile, non ti rimane che alzarti dalla panca di legno e cercare qualcuno che giochi con te.
Mi aveva trovata lì accanto che raccoglievo fiorellini con il mio vestitino a quadretti rossi. Gli stavo simpatica e lui a me.
Da quel giorno ci siamo presi per mano diverse volte. Spesso senza nemmeno rendercene conto. Come un angelo appariva al mio fianco sempre quando meno me lo aspettavo e nemmeno lo meritavo a dire il vero.

Tre anni senza nemmeno sentirci.
Poi all’improvviso alzo il telefono e lui è lì. Che mi aspetta. Perché lo sa che un giorno non potrò più stare senza di lui. Capitolerò e forse ci sposeremo.
Andremo in vacanza al mare e cucinerò per lui. Una volta all’anno forse andremo perfino a sciare, da soli o con gli amici , magari con i nostri bambini.
Potrebbe mettersi qualunque profumo addosso, ma per me odorerà sempre della carne alla griglia del nostro primo incontro.
Questa volta lo chiamo perché ho fatto uno dei miei soliti casini. Ci mettiamo d’accordo per pizza e racconti di vita consumata.
Alle otto mi passa a prendere.
La pizzeria che ci aspetta è la solita dei nostri fugaci incontri. Dista solo qualche isolato da casa, ma insiste per andare in macchina ugualmente.
Quando arriviamo lì di fronte tira dritto e non si ferma. Mi guarda con una luce strana negli occhi e un ghigno da bambino che la sta facendo grossa.
Scuoto il capo ma non domando. Tanto già so che non direbbe nulla.
Mi metto comoda sul sedile chiacchierando delle mie sventure, dell’ultimo fallimento amoroso e dei fiaschi lavorativi. Lui volge gli occhi al cielo e mi prende in giro.
Ci fermiamo dopo un’oretta di viaggio.
Riconosco il posto: da Gustavo.
È il mio ristornate preferito.
Cucina toscana. In onore dei nostri innumerevoli soggiorni tra i cinghiali della maremma. Vacanze da adolescenti spensierati tra la calma di Pereta e la morbida campagna di Scansano.
Lo abbraccio felice della sorpresa e urlo di gioia. Si tappa le orecchie con le mani. Ne approfitto e lo bacio.
Poi entriamo. Gustavo si ricorda sempre di noi. È un signorone con il marcatissimo accento toscano, giovale, con la faccia rotonda e carica di sorrisi che dispensa senza parsimonia.
Decide lui il nostro menù per non distoglierci dalle chiacchiere dei tre anni che ci hanno separato.
Pazzesco come a volte il tempo riprenda la sua corsa esattamente da dove era stata interrotta.
Lui è sempre il solito: fermo nella sua confusione. Non fa un passo e tutto gli arriva prima o poi, pensa.
Io corro come una matta da una parte all’altra. Prendo, o almeno ci provo, quello che mi piace, mi stufo e poi scappo lasciandomi alle spalle porte con cardini rotti che mai si chiudono completamente.
Quella sera era più affascinante di sempre.
Avrei voluto mangiare dalla sua bocca e bere dalle sue mani.
Mi sarei fatta accarezzare a lungo per dimenticare gli orrori della mia vita piena di errori e bugie.
Non si era mai fidanzato. Qualche avventura, ma niente di più.
Quella sera mi trovava irresistibile anche lui.
Sarà stato il Morellino di Scansano o la carne di cinghiale profumata al cioccolato che ci si scioglieva in bocca. Non lo so. E non lo saprò mai.
Sazi e felici tra abbracci e complimenti salutammo Gustavo promettendogli che non avremmo fatto passare altri tre anni alla prossima nostra visita.
In macchina ci baciammo con foga.
Le mani andavano dappertutto. Troppi anni senza permettere ai nostri corpi di conoscersi davvero.
Contenti che fosse arrivato il nostro momento.
Guidava impaziente, rincorrendo la notte per la nostra unione.

Mi piace ricordare spesso di come siamo entrati in casa già mezzi nudi, pronti per condividerci e gustarci. In silenzio, per non contaminare la melodia della fusione dei nostri respiri. Con gli occhi truccati di passione. La stessa che mi porto dietro oggi raccontandomi ancora quello che forse non è accaduto.

Il camion che ci travolse ci trovò mano nella mano.
Poi lo portarono via uomini vestiti di bianco, dentro un sacco nero. Tra le mie urla soffocate e il mio dolore struggente.
Lui che mai aveva inseguito nulla nella sua vita, fermo nella convinzione che tutto arriva a chi sa aspettare, quella sera aveva fatto uno strappo alla regola. Per me.
Aveva provato ad inseguirmi senza aspettarmi, per una volta.
Mi hanno tagliato la mano. Quella che mi teneva lui, sul cambio, mentre guidava.
Mi hanno tagliato la vita, ma non lo sanno.
Io vado avanti nella sregolatezza, correndo senza inseguire nulla.

Amore scaduto

venerdì 29 agosto 2008


Ovunque.
In uno spazio tra cielo e terra, senza il tempo per l’inganno.
In un giorno senza memoria che allunga la sua ombra, oltre.
In un istante lontano dal sogno e così appeso al reale che quasi è impossibile viverlo.
È una musica che suona senza orchestra, melodiosa e incompresa. Violini pizzicati senza archetto. È un tempo in 4/4 che non ha ritmo né suonatori.
Stava così, ora. Come una di quelle opere iniziate che non avrebbero mai avuto fine.
Uno sguardo all’orologio rotto, come a trovare comprensione perfino in qualcosa senza anima, uno alla tenda mossa dal vento, muta.
In attesa del niente, con la guerra dentro e mille domande in testa.
I capelli lunghi leggermente scomposti e arruffati dalla foga del sesso.
Forse il destino non le aveva regalato mai nessuna alternativa altrettanto eccitante e coinvolgente. Nulla che la facesse sentire cosi viva, corpo e anima.
Si erano presi ripetutamente fino a sfinirsi con un coinvolgimento e un’intesa mai assaporati prima.
La stanza di hotel che avevano scelto, con la fretta di aversi addosso per la prima e ultima volta, puntando il dito e volgendo gli occhi, dava su piazza Indipendenza.
Ma il rumore del traffico si perdeva nell’incrocio dei loro sguardi.
Erano rimasti schiacciati l’uno all’altro, a lungo, ascoltandosi i respiri, mentre la moquette soffice attutiva le urla delle loro anime, pesanti, che piano piano andavano cadendo vittime consapevoli di un’amore impossibile.
Perché le medicine, si sa, hanno innumerevoli effetti collaterali e una scadenza.
Anche quelle per l’anima.


Noi

lunedì 18 agosto 2008


Ho sentito l’odore del mare stasera.
Guardavo la tua foto, quella in cui hai il telefono in mano,quello con la cover rossa che ti avevo regalato io (ricordi?) e nelle narici mi è entrata la salsedine.
Non ci credo che tu non lo ricordi quel week-end.
Eravamo andati a cena da Adriano, in quella casa umida con i muri tutti storti, dove nemmeno ti potevi affacciare a respirare una boccata d’aria. A meno che tu non avessi voluto scambiare due chiacchiere con il vicino.
Quella parte di Genova Voltri è cosi.
O forse non solo quella parte.
Ma questo non lo posso sapere. non ci sono più stata.
Anzi si, una volta che tornando da un concerto l’uscita dell’autostrada Genova Ovest era chiusa e alle tre di notte mi sono ritrovata a passare di lì.
Poi mai più.
Ma non è un luogo da villeggiatura, tu che dici?
Era il primo vero caldo della stagione. Non mi ricordo perché non eravamo andati in moto.
Eppure eravamo soli.
Per dormire ci aveva lasciato la casa un collega di Adriano.
In una zona in periferia di Genova, mi pare che fosse vicino all’università.
E qui si aprono una serie di riflessioni che non fanno parte di questa storia.
Ricordi ancora più vecchi che riguardano il mio percorso di studi, che ti ho già raccontato mille volte ma che forse non hai mai nemmeno ascoltato.
Ci eravamo divertiti, comunque.
Due giornate di mare a Bergeggi, dalle parti di Savona.
Carina, pittoresca, e delicatamente colorata.

Era il primo bagno della stagione.
La spiaggia era gremita di gente, nonostante fossimo partiti presto.
Il sole era caldo e la sensazione dell’acqua di mare fresca sulla pelle era il paradiso.
Ci bastava poco per stare bene. Avevamo nuotato fino ad un’isoletta lì vicino. Io in gran forma, tu senza fiato.
Colpa delle sigarette, dicevi.
Sugli scogli a fare l’amore, perché a me in acqua non è mai piaciuto particolarmente, con il rischio che qualche sub ( si buttavano da lì per le immersioni) ci vedesse.
Ma noi stavamo bene, e non ce ne importava nulla.
La nuotata di rientro alla spiaggia è stata dura. Entrambi boccheggiavamo, ma non per colpa delle sigarette questa volta.
Con estrema e assoluta complicità.
Con quella voglia di starsi addosso, di guardarsi e farsi guardare come se fossimo stati da soli sulla faccia della terra.
Come se fossimo noi i proprietari di quell’angolo di cielo e volessimo preservarlo tale. Incontaminato, solo per noi.

Sensazione strana scrivere NOI.

Una volta quel noi esisteva davvero, neppure molto tempo fa. Ricordi?
Non puoi non ricordare nemmeno questo.
Non puoi lasciare sempre che i ricordi si sciolgano tra le dita.
Non ho fretta di conoscere la risposta.
Pensaci su. E poi dimmi che ti ricordi.
Dimmelo anche in silenzio se preferisci.
Per certe cose non servono le parole.
Ho sempre sperato che tu, come me, potessi attingere dalla forza dei tuoi ricordi per credere in un futuro di promesse che contengono tutto ciò che ancora non è accaduto.

A volte mi domando se il nostro amore non sia stato altro che un cercarsi per la pace dei nostri corpi.
Vorrei sperare che non sia davvero stato così.

Adesso vado. Anche se dovresti esserti già accorto che me ne sono andata da tempo.

Continuo a camminare, sola.
A volte corro, ma non sempre.
Chissà che un giorno la vita mi riporti al punto di partenza, per restituirci il nostro futuro.

Marras Giuseppe

domenica 10 agosto 2008


Si chiamava Marras Giuseppe.
Era uno dei più grandi possidenti delle terre dell’ Anglona.
Un uomo basso e tarchiato, con un odore acre di sudore anche nelle giornate fredde d’inverno.
Tutti prima o poi si erano scontrati con lui quanto meno verbalmente. Prepotente e ignorante cercava sempre la rissa.
E sempre la trovava.
Entrava nei bar con quell’atteggiamento da grande spaccone quale era, sputando tra i tavoli e trascinando gli anfibi sporchi di melma sul pavimento.
Capivi che tipo di persona era anche prima che aprisse bocca, e quando l’apriva non era una sorpresa sentire una parola preceduta e seguita da quattro bestemmie.

Il 31 dicembre 2001 una pallottola gli bucò lo stomaco.
Pioveva, non si vedeva ad un passo dal naso per la nebbia.
Non era giorno di caccia.
Ma qualcuno aveva fatto caccia grossa.
Pum pum. Due colpi e Giuseppe Marras aveva finito di essere l’uomo di merda che era sempre stato.
Uno allo stomaco, e per sicurezza uno sul fianco, quasi al rene, a quello che gli avevano trapiantato saltando liste d’attesa interminabili. Qualcuno diceva che l’ aveva comprato da un bambino sano a Perfugas, figlio di una misera famiglia di pastori.
Fatto sta che alla fine quel rene, comprato o no, glielo avevano fatto saltare.

Lo trovò Antonio Pintus, il suo tuttofare, una mezz’ora dopo.
Riverso a pancia in giù in mezzo ai maiali.
Al suo posto insomma, pensarono tutti quando venne divulgata la notizia.
Vennero interrogati tutti i cacciatori del suo paese e di quelli limitrofi.
Ispezionate tutte le case di possessori di fucili.
Anche quella di mio zio.
La sua arroganza prepotente era motivo sufficiente perché tutti gioissero della sua morte.
Tutti indiziati e potenziali colpevoli.
Ma alla fine tutti innocenti.
Su ‘ La Nuova Sardegna ’ fino al termine delle indagini nella pagina della cronaca nera gli veniva sempre riservato un trafiletto che aggiornava sul nulla in realtà, dato che alla fine la vicenda si è chiusa senza un colpevole.

Una di quelle storie che fin dalle prime battute preannuncia un doloroso finale.
Nessuno ha mai confessato di averlo fatto fuori, ma tutti hanno in silenzio ringraziato per la liberazione che tale generoso gesto ha regalato.

Soprattutto la moglie.
L’unica mai indagata, perché si sa che queste cose di vendette e faide, di fucilate in mezzo alla nebbia e risse nei bar,sono principalmente cose da uomini.


Borderline

martedì 5 agosto 2008


Il sole brucia, la testa scoppia.
Ti sei persa nella strada buia dei tuoi pensieri.
Cammini voltandoti ad ogni passo.
Scivolando su ricordi ormai troppe volte ripercorsi.
Senti il cuore che batte.
Forse non è il tuo, che si è fermato alle 11.50 di quella domenica mattina di sole, quando hai allungato le mani per bere.
Acqua fresca, dal sapore nuovo ed entusiasmante.
Poi in un baleno la testa gira, il caldo urla e l’acqua si fa di un sapore amaro. Mai provato prima, pensi. Ma lo sai anche tu che non è così.
Distratta prosegui per la tua via sacra, lottando contro demoni di un passato recente che non puoi cancellare.
Ma devi.
Volti pagina, perché su quella in corso non c’è più nulla da aggiungere. Non c’è più spazio.
Raccogli i capelli insieme a quel che resta dei tuoi pensieri.
Distante dalla luce di quel sole che per un attimo ti sembrava così vicino.


[Nota dell’Autore: “Sul treno, a volte, è bello viaggiare al contrario”]

Perchè...

sabato 2 agosto 2008

Perchè farti 1000 km, quando puoi fallire comodamente a casa tua?

(Gianfranco Marziano)

Stamattina mi sono svegliata con il sole nel cuore, nonostante tutto. Nonostante io sia a casa e lontana da tutto quel che avrei voluto raggiungere oggi.
Tra poco ,forse, decido di alzarmi da questo letto di noia e di andare. Dove non importa. intanto vado, così, magari, la smetto anche di mangiarmi le unghie.;)

Cinema

mercoledì 30 luglio 2008


Domenica sera cinema.
Questa volta tocca a te scegliere il film. Poca roba che stimoli la tua fantasia nelle sale in questo periodo.
La scelta è limitata. Tu non guardi horror, né film da quattordicenni in preda ad uno scompenso ormonale. Lui non guarda film di spessore perché non li capisce e si addormenta e russa.
E la tua serata al cinema diventa uno sgomitare continuo contro il suo braccio per farlo smettere.
Ancora non avete capito che forse dovreste andare al cinema separati.
Coltivare ognuno i propri interessi e lasciare all’altro lo spazio per fare altrettanto.
Perseverate nella ricerca di una condivisione impossibile.
Chissà che uno dei due prima o poi capitoli.
Certo non sarà lui. Dal momento che non rinuncia a nulla.
A differenza tua.
Fortuna ti è rimasta quanto meno la lettura.
Sulla quale ovviamente non potete scambiare opinioni perché lui non legge.

Decidi per un film fresco appena uscito nelle sale:
Points of view, la storia di un saxofonista che vive di musica trascurando moglie e figlia che finisce senza un soldo e cornuto. Con una vita da vivere che non desidera e che non riesce a migliorare.

Trama carina, attori discreti. Riesci anche a piangere.
Lui russa. E tu sgomiti contro il suo bracciolo, come previsto.
Alle 00.38 uscite dalla sala. Tu con gli occhi lucidi e rossi per il pianto, lui con la faccia stropicciata per la dormita.
Siete con la tua macchina per fortuna così almeno puoi decidere di aggiustare l’umore ascoltando un cd dei tuoi.
“Mi scappa da pisciare Tati” ti dice.
Ti fermi all’autogrill, imprecando contro la sua vescica e contro di lui che poteva andare al cinema a farla o tenersela fino a casa.
Ci vogliono solo dieci minuti per arrivare.
Ti fermi.
Lui scende e tu resti in macchina con la tua musica.
Lo vedi mentre si allontana e scompare dietro la porta rossa.
Non spegni nemmeno il motore.
Giri la macchina e te ne vai.



Sulla sua isola

martedì 22 luglio 2008


Si era presa ferie persino da se stessa.
Gelosa di quel passato che non sarebbe mai stato suo, nella difficoltà di accettare l’esistenza della sua vita, prima di Lei.
Soffriva per i ricordi che non avrebbe mai condiviso, per quelli che non poteva ricordare davvero.
Metteva un piede davanti all’altro camminando all’indietro, lontano da quel futuro di speranze che non doveva ma che, a volte, pareva essere un furto al passato.
Si barcamenava in quella odissea di rumori che la portavano al presente ogni volta che la sua mente cambiava strada per tornare indietro.
Molte delle cose che aveva le doveva al suo fascino ipnotico e ai modi suadenti, al suo sorriso fatto di denti bianchissimi e perfetti, consapevole di spalancare il paradiso a ogni moto di labbra.
Ora non sorrideva più tanto spesso. Non si emozionava più se le regalavano una rosa.
Era troppo concentrata su quel che era stato per rendersi conto della favola dei momenti che spesso andava perdendosi.
Tutto era iniziato con quel viaggio a Roma. L’unico vero viaggio della sua vita, diceva lei. L’unico che rifarebbe, sola, con una testa diversa ma con lo stesso cuore. L’unico che l’aveva fortemente cambiata, resa immortale come la città eterna, che le aveva dato uno slancio verso quel futuro da sempre desiderato, ma che l’aveva tenuta attaccata con una corda ad una grata da dove poteva osservare tutto a quadretti, attraverso le maglie della rete, senza interagire, mai.
Come quando stai su una moto, e vai a 200 all’ora incurante del pericolo, annusando l’aria, sentendola tra i capelli, nelle ossa, tra le dita, sulla pelle. La vivi ma non l’afferri. Forse nemmeno ci provi. Ed è giusto così.
Ogni novità era il riflesso di qualcosa che era già stato, di un sentimento già gustato forse mai fino in fondo.
Non sceglieva mai, per scelta. Non giocava al rilancio sulla sua vita.
Aspettava che gli eventi tornassero lì da dove erano cominciati per trovare la loro strada, senza fetta. Senza affanno. Senza senso.
Ferma immobile persino nel desiderio più profondo. Convinta che al momento opportuno le sarebbero spuntate branchie per respirare e pinne per nuotare sulla sua isola di ricordi futuri che piano piano sarebbe affondata nel mare del presente.
Perché qualcuno le aveva detto una volta che quando abbandoni il salvagente scopri che è l’acqua a sostenerti. Ma ancora non aveva trovato il coraggio di buttarsi e provare a nuotare per recuperare il tempo che inesorabile le scivolava tra le dita, ora.




La maschera di cera

venerdì 18 luglio 2008


Collegata a qualche cosa che nemmeno tu sai cos’è.
Te lo chiedi continuamente anche quando sai che qualcuno cercherà di darti delle risposte che non vuoi, credendo di farti stare meglio, forse.
Remi invano contro corrente. La zattera sulla quale ti trovi ti porta verso quello stato d’animo da cui provi a fuggire.
Hai sempre pensato che scappare non sia la soluzione migliore, che non sia una soluzione in realtà.
Ma questa volta non puoi farne a meno.
Non vuoi essere risucchiata da quel meccanismo che ti renderebbe un’ entità astratta, dentro. Coperta da maschere di cera che ti fanno sudare, fuori.
E quando sudi ricordi di essere viva. Di desiderare ancora qualcosa senza sapere esattamente se il desiderio sia lecito oppure no.
Prendi tempo mentre perdi il ritmo.
Non più vigile né attenta.
La maschera si scioglie e ne indossi subito un’altra.
Ti resta quella frazione di secondo in cui respiri davvero per capire se hai quel che vuoi.
Già conosci la risposta.
Quello che hai ora è solo la perdita di quello che hai avuto.
Remi con foga per evitare di essere travolta, ma la maschera ti si appiccica al viso e ti toglie il respiro, per un attimo.
Cancella il passato e i ricordi.
E rinasci.
Pur non essendo ancora morta.

Una sposa perfetta

venerdì 11 luglio 2008


Forse per un attimo hai creduto che con quell’anello al dito tutto sarebbe stato migliore.
Qualcuno ti aveva detto ‘diverso’ ma migliore no.
Hai voluto provare, l’hai fatto per te e per lei.
Hai provato a darvi quella chance che credevi di meritare dopo anni di lunga condivisione.
Te lo dicevano tutti che non era fatta per il matrimonio, una pazza scatenata da amare sempre ma da tenere con sé mai.
Per lei tutto era un gioco. Anche amarsi.
A letto un fuoco, tra frustini e giochetti recuperati nei vari sex-shop dei suoi giri per il mondo.
Un vulcano in testa. Sempre in eruzione.
Ferma mai.
Stabile mai.
Tranquilla mai.
Quando le hai chiesto di sposarti forse non ci credevi nemmeno tu, o forse si, ma non vuoi ammetterlo perché ti farebbe ancora più male.
Con quegli occhi languidi davanti alla pizza e all’anello di brillanti ti ha detto si.
Il giorno dopo è andata a rivenderlo per comprare una credenza etnica da mettere nell’ingresso di casa.
Quando sorridente ti ha raccontato quello che aveva fatto l’hai amata ancora di più.
Poi è arrivato il giorno del sì.
Tu all’altare, bello come il sole, emozionato come un bambino che freme in attesa di scartare i regali di natale.
È arrivata. Avvolta in una nuvola di candore che lasciava senza fiato.
Si mordicchiava il labbro superiore. Era tesa.
Non l’avevi mai vista cosi.
Sono bastati pochi secondi e la nuvola di candore si è dissolta tra le tue braccia e davanti agli occhi increduli dei quattro invitati prescelti.
Il bianco dell’abito si è fatto rosso.
Il coltello che si è conficcata nello stomaco era la sua promessa d’amore. L’unica che avrebbe impedito di farti del male davvero, che non ti avrebbe trascinato in anni di malattie di cuore e di testa in attesa del suo ritorno da qualche viaggio, l’unica che avrebbe davvero sancito la vostra unione per sempre.
Tua per sempre.
Nel ricordo, nella vita insieme che era stata, nell’amore promesso che non avrebbe potuto mantenere se non in questo modo.
Tu l’hai vista la sua anima che si alzava dal corpo e ti sorrideva stanca mentre usciva dalla chiesa dicendo per sempre…
Adesso lo sai che non era pazza come dicevano tutti.
Era solo pazza d’amore, per te.
Che non hai saputo amarla e comprenderla mai.






La faccia


Prima c’eri tu a colorare quello spazio nero. Poi ho messo un fiore.
È viola, forse é un ciclamino.
Almeno non mi guarda con quello sguardo indagatore ma evanescente al tempo stesso.
Non mi giudica una poco di buono né una rompiscatole solo perché domando cose che mi si dovrebbero dire senza che nemmeno io le chieda.
E piantala di fare quella faccia.
Lo sai anche tu che ho ragione.
Non puoi pensare che davvero le cose vadano bene quando non hai mai voglia di condividere nulla con me.
Alzati da questo buco nero e vattene. Lasciami da sola, lasciami quegli spazi che mi hai rubato e che alla fine non sapresti nemmeno come usare.
Viviti la tua vita e lasciami qui a godermi della mia.
Parti per quel viaggio che hai sempre voluto fare ma che non hai mai fatto.
Sollevati dal mio petto e vai e spacca il mondo.
Respira piano, basta affanni. Ne hai avuti e regalati troppi.
Ora, gambe in spalla vai verso quel futuro di promesse che da sempre immagini.
E ricordati, mentre sei in viaggio, che sei solo una mia foto.

[il racconto è stato pubblicato all'interno della rivista letteraria @phorism]




Io gioco


Lo sapevo.
Mi avevano scelto anche quella domenica.
Del resto ero una delle più nuove.
Giovane, soda, poco usurata.
Avevo già preso qualche calcio importante ma ancora ero in forma per competizioni di un certo livello.
E mi avevano scelto. Di nuovo.
Tra l’invidia di alcune compagne che ormai venivano usate solo negli allenamenti.
Quella domenica avrei voluto nascondermi dietro qualche materasso , lì nel magazzino dove ci tenevano, pur di non giocare.
Ma non sono mai io a decidere.
Speravo quanto meno di non essere la prima a scendere in campo.
Speravo che mi avrebbero lasciato tra le mani del quarto uomo, o consegnato a uno dei sei raccattapalle. Magari non a quello brutto e antipatico che stava tutto a destra, sotto il cartellone della Tim.
Immersa nei miei pensieri e sotto lo sguardo indagatore dell’arbitro mi trovai dopo poco a centrocampo.
Come non detto.
Un fischio e via con i soliti calci.

Mi ricordo la mia prima partita.
Ventidue baldi giovani che mi correvano appresso.
E la palla medica giù nel magazzino che invece nemmeno mi degnava di uno sguardo…strana la vita eh?
Agile passavo da un piede all’altro, leggiadra e contenta.
L’impatto con la rete poi… un sogno.
Come una tazza di acqua fresca quando stai boccheggiando dal caldo.
Un sollievo, una carezza inaspettata.
A volte persino arrossivo al tocco delicato delle forti mani del portiere di turno (capirete bene che non posso esprimere le mie preferenze data la posizione che ricopro.).
Ma da un pò di tempo tutto è cambiato.
In un anticipo giocato di sabato sera, buttata da una parte all’altra del campo come sempre, ero finita per la prima volta sugli spalti.
Nessuno era venuto a recuperarmi.
Un ragazzino timido si era avvicinato ma aveva desistito data la vicinanza di un poliziotto.
E così quella volta mi ero goduta lo spettacolo quasi per intero.
Ferma e in pace.
Vedevo le mie otto compagne che si avvicendavano affannandosi in cerca di gloria.
Volevano il contatto con la rete o la carezza del portiere.
Senza tregua.

A bordo campo si respira un calcio diverso.
Non lo sai finchè non provi.
Cambia la visuale,il punto d’osservazione.
Vedi cose che da dentro, mentre giochi, mentre corri, ti scivolano addosso,perchè corrono veloci con te.


Finta la partita c’era stata un po’ di baraonda tra i tifosi e con un incurante calcetto qualcuno mi aveva ributtato in campo.
Uno dei raccattapalle mi aveva raccolto e riportato a casa.
Sana e salva, ma con una coscienza diversa.
Forse avrei voluto che quel ragazzino mi prendesse e mi portasse con sè.
Ma mi avevano riportato al mio magazzino.

Ed eccomi qui. Anche in questa domenica.
Di nuovo per un secondo a centrocampo e poi sballottata da una parte all’altra da calci più o meno vigorosi che raccontano di problemi ai polpacci, alle ginocchia e di altre varie magagne di salute dei giocatori.
Risucchiata da un meccanismo di emozioni che nessuno riesce a comprendere fino in fondo.
A volte chi è seduto sugli spalti ad osservare vorrebbe scendere in campo per tirare quattro calci alla palla e provare a fare goal. Poco importa se non ci riesce, quanto meno ci ha provato.
E chi è in campo invece, e corre e corre, si affatica , e cade e si rialza, e tira calci alla palle e prova a fare goal e a volte ci riesce, forse non ci pensa nemmeno a sedersi sugli spalti ad osservare la partita.
Forse invece vorrebbe ma pensa sempre che non sia ancora arrivato il momento di fermarsi e godere dello spettacolo.
Rimanda ad un prossimo futuro quello che dovrebbe probabilmente gustare nel suo presente.
Io questo l’ho capito quel sabato sera degli spalti.
Del resto non si può vivere in panchina tutta una vita, o stare sempre seduti ad osservare gli altri che mettono a segno il nostro goal.
Ma nemmeno si può vivere una vita a centrocampo, tra gli incitamenti dei tifosi e sotto i riflettori di una domenica qualunque.

Finita la partita di oggi.
Anche questa domenica è passata.
Ho fatto il mio lavoro, in sintonia con i piedi degli altri e alla fine di tutto mi hanno riportato al mio posto, come sempre.
Non sono io che scelgo se scendere in campo oppure no. Se giocare oppure no.
Non posso decidere di rimanere accoccolata a bordo campo, senza entrare.
Ma voi che potete, fatelo!




[Il racconto è stato pubblicato nell'Anthology "La palla è rotonda" - AA. VV. edito da LAB (Prima edizione Luglio 2008)]

A colori

giovedì 10 luglio 2008


Non c’é più fretta né attesa quando il tempo diventa tuo complice.
Se lo ripeteva spesso.
Forse mai abbastanza, però
Credeva nelle coincidenze, nel fato, nella legge cosmica secondo cui nulla accade mai per caso.
Per questo a volte si trovava intrappolata in una serie di ragionamenti incomprensibili persino per la sua mente che li aveva partoriti.
Aspettava, in silenzio, il suo turno, osservando attenta le mosse degli altri , per costruire il suo piano ardito.
E pronta, al momento opportuno prendeva l’iniziativa.
Ecco. Il problema stava proprio qui: sbagliava sempre il tempo di reazione.
Aveva il maledetto vizio di guardare sempre in alto senza mai accontentarsi della soluzione più semplice, convita che solo osando si potevano ottenere grandi risultati.
Mai si voltava indietro, anche se si rendeva conto di aver sbagliato, certa che avrebbe trovato un'altra strada per arrivare alla sua meta.
Il suo lavoro era quello di cercare nuove idee negli occhi degli altri, rubando sguardi, per poi rivenderli nei suoi disegni.
Non credeva di essere una grande artista, ma si divertiva a farlo credere agli altri.
Frequentava, tra un pensiero assurdo e l’altro, la Scuola del fumetto, a Milano.
La frequentava a metà.
Seguiva solo le lezioni che le interessavano. E l’avrebbero bocciata per questo.
Per mantenersi vendeva tavole di ornato agli alunni del liceo scientifico Galilei e del liceo artistico Da Vinci.
La sera preparava il suo banchetto in Brera e aspettava che qualche giovane disperato passasse di lì per comprare le sue tavole o per commissionarle qualche nuovo lavoro.
La voce tra gli alunni si era sparsa in fretta, soprattutto tra quelli che, poco amavano disegnare.
Gli affari le andavano bene.
Niente delle sue opere rimaneva invenduto.
A mezzanotte, a volte anche prima, sistemava baracca e burattini e si avviava verso casa.
Proprio sotto casa il loro primo incontro.
Camminava distratta, parlando con la luna.
Gli era finita tra le braccia.
Un volto noto.
Lo guardava incantata senza dire nulla, inebriata da quel profumo di bagnoschiuma alla mirra, lo stesso che usava lei.
Cercava nella memoria qualcosa che potesse ricordarle chi era, ma niente.
Buio totale…
Forse si erano conosciuti in un’altra vita.
Forse era uno psicopatico che voleva violentarla e derubarla.
Forse era un suo fan che la inseguiva per avere un autografo.
Poteva essere qualcuno a cui doveva dei soldi, che aveva deciso di beccarla proprio nel momento della giornata in cui si sarebbe facilmente arresa, se non altro per la stanchezza che aveva in corpo.
O assomigliava al ragazzo che aveva incontrato al mercato del pesce qualche giorno prima?
La soluzione più probabile, che fosse un bell’uomo qualunque, e che per sbaglio i loro corpi si fossero scontrarti, non le piaceva.

Per tre sere di fila si incontrarono sotto casa di lei, senza finire uno nelle braccia dell’altro fortuitamente come la prima volta.
Poi in una sera che aveva deciso di restare a casa a disegnare, se lo trovò nel salotto. Stravaccato sul divano come se si trovasse a casa propria.
Lo osservò con attenzione estrema.
Volto noto.
Profumo:il solito di mirra.
Sguardo rubato al mare.
Si stava arrampicando sull’albero dei ricordi.
Per sapere chi era quell’uomo, fermo immobile sul suo divano.
Per la prima volta nella sua vita di artista e di donna, stava tornando indietro, per riesaminare il percorso effettuato, per cercare di cambiare punto d’osservazione.

Sul tavolo il suo fumetto preferito. Aperto.
Alcuni fotogrammi vuoti.
Mancava lui che aveva forse deciso per qualche sera di vivere a colori.



[il racconto è stato pubblicato all'interno della rivista letteraria @phorism.it ]

[nota del 1 agosto 2008: il racconto è stato pubblicato all'interno della rivista letteraria scrivendo.it - clicca qui per leggere il racconto e i commenti]