Identità rubate

giovedì 27 novembre 2008

La prima volta la incontrai di notte. Camminava sola, con lo sguardo puntato a terra, fisso ai piedi.
Il soprabito blu era di due misure, almeno, più grande. Se lo teneva stretto in vita, come l’abbraccio di un innamorato, cercando di non perderlo.
Passavo da lì distratto, dopo il turno di notte, credo. Procedendo con passo spedito verso casa.
Mi sorrise.
“Hai da accendere?”disse.
“Mi rincresce, non fumo” risposi.
“Buon per te. Grazie lo stesso”.
Mi ritrovai a fissare quella piccola bocca deforme come fosse stata la cosa più bella mai vista in vita mia.
Imbarazzato, ripresi la mia marcia da soldato. Senza fretta però.

La settima dopo, feci cambio turno con un collega.
Gli rubai il giorno.
La trovai ad aspettarmi sotto la pensilina dell’autobus per il centro.
Mi si avvicinò canticchiando.
“Ti accompagno volentieri se vuoi” disse.
“E’che vado a prendere un caffè con degli amici…” risposi senza nemmeno guardarla negli occhi.
Mi sorrise e si allontanò facendomi un cenno con la mano.

Il giovedì sera successivo portai mia moglie e mia figlia a vedere la partita di basket organizzata dalla mia azienda, per raccogliere fondi a favore dei malati di Alzheimer, credo.
La vidi sugli spalti di fronte. Abbozzò un cenno di saluto.
Ma io non ricambiai.

All’incirca un anno dopo mia moglie mi lasciò, portando con sé la nostra bambina.
La vidi scendere in strada, con le valige e gli scatoloni ingombri di ricordi che forse nemmeno le appartenevano. Non feci nulla per fermarla.
Quella notte girai un paio di locali in cerca di quell’oblìo che solo le grandi sbornie sanno dare.
Riconobbi la piccola bocca deforme, da lontano, credendo fosse un miraggio.
Mi avvicinai e con la lingua ingarbugliata riuscì a domandarle: “Dormi con me questa notte?”
Lei sorrise e senza sorpresa declinò, stringendosi nell’abbraccio scuro del suo soprabito di due misure più grande.

Sono qui da qualche settimana, credo. Ma a giudicare dalla familiarità con cui mi trattano potrebbe essere anche da più tempo.
Divido la stanza con Marina, una vecchia dispotica di 70 anni ormai priva di lucidità da qualche anno. Sono l’unico uomo presente in questo piano. Medici a parte.
Socializzo poco qui dentro. Mi sembrano tutti pazzi.
Viene spesso a trovarmi una giovane donna con un soprabito blu. È talmente evanescente da sembrare irreale a volte. Forse è mia figlia.
È una bella donna. Anche se ha la bocca storta e quando mangia qui con me, la domenica, sbrodola dappertutto.
La sgrido di continuo ma mi sorride sempre. Mi è capitato di sentirla parlare con qualche medico di deterioramento cognitivo cronico progressivo. È gentile ad interessarsi di Marina, penso.
Ieri le ho chiesto di sua madre. L’ultima immagine che ricordo di lei è quella di un taxi giallo che la porta via. Mi ha sorriso e sistemato i capelli senza dire una parola, nascondendo a stento le lacrime.
Non ho avuto il coraggio di domandarle più nulla di quella vita che non ho potuto condividere con loro.
Anche se a volte la curiosità, in quei rari ed ultimi momenti di sanità mentale , mi avrebbe forse aiutato a non incorrere in spiacevoli sorprese.

Chi sono e perché mi trovo qui ancora non l’ho capito. La mia mente mi regala immagini che forse nemmeno sono reali. Forse lo sono state un tempo, o forse no. Ma non lo posso sapere con certezza, perché nessuno risponde alle mie domande.
A volte, da sveglia, sogno di essere una donna a cui i demoni del passato hanno rubato l’identità, in un giorno che ha il colore della notte.
Vivo in un’alba che assottiglia il confine tra il reale e l’immaginato. Dove non esiste distinzione di sesso, né di ruoli. Dove la donna è uomo, è padre, è madre, è marito, è figlia.
E dove tutti sono soli con sé stessi.
Poi chiudo gli occhi. E, per un istante, mi riconosco.

Natale che dorme

giovedì 20 novembre 2008

È un Natale che dorme.
Senza emozioni e senza ricordi, smarriti attraverso il tempo che scorre.
L’ho visto per l’ultima volta sulla riga dell’orizzonte, tendendo l’orecchio verso quel mare, sempre imprevedibile. Se l’era mangiato in un sol boccone mentre stava ricurvo sulla sua barca, in attesa di tirare a bordo la rete.
E mi ha lasciata sola in questo piccolo paese di pescatori, dove il tramonto ti toglie il respiro, dove i gabbiani cantano tutto l’anno, dove le rondini non migrano.
Qui. Dove il mondo finisce.
È un Natale senza stelle.
Senza una luce che indichi la riva. L’approdo, per non morire.
È un Natale senza luna.
Dove il cielo si confonde, nero, nel mare blu.
Tutti, qui, festeggiano la nascita, mentre io respiro la morte.
Ripenso alle tiepide sere d’estate, al rosso del tramonto, ai gabbiani che planano su quella distesa d’acqua assassina. Ricordo l’odore del pesce appena pescato e ancora agonizzante, con gli occhi tristi.
E lui che mi sorride sereno, come chi vive credendo che nulla possa finire.
È un Natale che dorme ma che è anche un po’ sveglio, ad assistere il cielo che, invece, non dorme mai.

Dall'una alle tre

martedì 4 novembre 2008

Non aveva molto tempo per ricordare.
Né per vivere.
Era ormai da qualche mese ricoverata in uno dei riparti più temuti di ogni ospedale, quello da cui hai poche possibilità di uscire con le tue gambe.
Se sei fortunato e hai una bella famiglia, magari ti fanno passare a casa le domenica, rigorosamente in sedia a rotelle, a mangiare le lasagne che tua madre ha cucinato dopo aver radunato tutti per l’occasione.
Ormai sei diventata il pretesto per la pace e l’incontro dei parenti.
Un pò come alle cene di Natale.
Il cancro le stava mangiando, nemmeno poi troppo lentamente, ogni singola pulsione vitale.
L’aveva combattuto a lungo, ma ormai, dicevano, non c’era più molto da fare.
Aveva deciso di morire serena, in una clinica privata, per non dare troppo disturbo in casa.
Quello che era stato di suo marito si era volatilizzato al primo intervento, quando le avevano asportato e ricostruito una parte d’intestino.
E ora i suoi nuovi compagni di vita erano diventati uomini e donne dal camice verde.
Una volta aveva lunghi capelli corvini.
Ora una bandana legata distrattamente alla testa nuda.
Il volto scavato, la carnagione quasi trasparente. Come un fantasma.
Tutto il giorno a letto, spossata.
Leggeva. Aveva voglia di scrivere ma spesso le mancava la forza per poterlo fare.
La sua giornata ruotava attorno a quelle maledette flebo di chemio. Ora le facevano quella rossa.
È la più forte, è quella che vince. Forse anche contro la voglia di vivere.
Dalla mattina presto fino all’una circa.
Tolta la flebo cercava di riacquistare un po’ di quella dignità che i troppi mesi di cure le avevano cancellato.

Puntuale arrivava il suo visitatore preferito.
L’unico che attendeva con impazienza e su cui fantasticava.
Era alto, con due spalle nate apposta per abbracci peccaminosi, capelli corvini, come i suoi di una volta.
Gli occhi cambiavano spesso colore, a seconda dell’umore forse. Dal blu al viola, senza preavviso.
Non si ricordava chi fosse esattamente. Né le importava davvero scoprirlo.
Lui era lì, ogni giorno dall’una alle tre.
Bello come la più audace delle tentazioni.
Trascorrevano quei momenti di pace per i sensi e di calma per il fisico passeggiando nel parco, lontano da quell’odore pungente e pregnante che caratterizza tutti gli ospedali. Quello che ti entra nel naso e scende in gola, ti buca lo stomaco, ma che devi imparare a digerire per forza.
Alle tre in punto lui se ne andava e lei si ritrovava sola, nel letto di quella stanza sterile, pronta a combattere le nausee in arrivo e con un ricordo profumato nel cuore.

20 di giugno 2008. ore 13.
Lui non ha varcato la porta della stanza 14/b reparto di oncologia, casa di cura Humanitas, Milano.
Impaziente lei misurava di continuo la stanza tra porta e finestra, infastidita dal trambusto di medici che passavano di lì correndo, per arrivare chissà dove.
Poi il buio di una notte senza sogni.
La mattina dopo non la svegliarono per la solita flebo.
Forse era il giorno di pausa tra una terapia e l’altra, non se lo ricordava, aveva perso il conto.
Lo vide che le veniva incontro, sorridente e con gli occhi intensi e rassicuranti di sempre. Allora si spostò un poco, per cambiare punto di osservazione, come a volte è giusto fare.
Gli sorrise, perché era in anticipo sul tempo.

(Ora del decesso: 10.42)