La fata del sorriso

venerdì 24 ottobre 2008

Girava sempre con una borsa a tracolla.
Per dispensare sogni, diceva.
La chiamavano la fata del sorriso.
Fin da bambina si era distinta per le sue doti e la sua sensibilità.
Si diceva che avesse il dono di san Francesco e parlasse con gli animali.
Quando la conobbi io aveva già il viso segnato dalle rughe del tempo e il capo cosparso di morbidi capelli grigi, che teneva raccolti in una crocchia perché ormai non erano molti.
Ma il sorriso… quello non aveva subito mutazioni.
Ero lo stesso di un tempo che aveva fatto innamorare mille soldati. Lo stesso che, con grazia, aveva consolato le nuove giovani vedove regalateci dalla guerra.
Lo stesso che aveva abbracciato pietoso e magnanimo le delicate anime di bimbi rimasti orfani.
Lottava con il suo sorriso contro ogni tipo di dolore.
Andava vagando di paese in paese, di città in città con la sua tracolla colma di sogni da regalare, di sorrisi da condividere.
Non domandava denaro.
Si accontentava di una saponetta per lavarsi e un pasto frugale per rinvigorire il corpo e lo spirito.
Raramente tornava nello stesso posto.
Viaggiava a piedi. Ogni tanto – diceva - approfittava della squisita gentilezza di un mulo o di un asino che andavano nella sua direzione.
Mai troppo spesso, però.

La conobbi a casa di Fernanda, in quella gelida sera d’inverno, in cui nessun viandante mai avrebbe pensato di mettersi in cammino.
Attaccate alle caviglie delle piccole campanelle che musicavano ad ogni suo passo.
La tragedia di quella indimenticabile giornata la portò da noi.
Fernanda aveva partorito due gemelli.
Morti.
Nove mesi di attesa per dare alla luce due minuscoli corpicini senza un alito di vita.
A quei tempi avevo sentito parlare di lei, ma avevo sempre creduto si trattasse di una di quelle leggende fantastiche che viaggiano di bocca in bocca e di generazione in generazione, arricchendosi sempre più di particolari.

Non bussò nemmeno.
La porta era chiusa con un chiavistello e mai capimmo come fosse riuscita ad entrare, né mai avremmo avuto il tempo di domandarglielo.
La trovai in cucina che preparava torte alla frutta.
Mi rassicurò dicendomi che avrebbe pensato lei a tutto.
“La fortuna arriva sempre prima o poi, bambina mia. A volte assume strane forme e colori di cui non conosciamo l’esistenza, ma è un dono e non possiamo rifiutarlo.”
Parlò con una sicurezza tale e con un tono delicato e suadente che fui come ipnotizzata. E rimasi lì imbambolata e tacitamente sorridente, senza riuscire a dire nulla.
Felice che, in quella fredda giornata di pioggia per l’anima, il suo calore fosse stato capace di strappare un sorriso.

Da bambina già sapevo che avrei fatto la levatrice.
Era il mestiere di mia nonna, di mia madre e sarebbe stato anche il mio.
Non eravamo state fortunate in quanto a uomini in famiglia.
Mio nonno faceva l’agricoltore. Lo trovarono a faccia terra nei campi con un buco di sangue al posto del cuore.
Nonna diceva che era stata l’invidia, perché la nostra era la vigna più bella di tutta la regione.
E così ho sempre pensato che l’invidia, dal momento che aveva bucato il cuore al nonno, fosse davvero una malattia grave ed incurabile. Cosa per altro poco distante dalla realtà.
Rimasta sola, mia nonna si rimboccò le maniche per crescere le sue quattro piccole bambine.
In tempi in cui non esisteva un lavoro se non eri capace di inventartelo.
Una delle sue figlie, che mai ebbi il piacere di conoscere, morì di pazzia, mi raccontarono.
Si innamorò di un soldato.
Aspettò per anni il suo ritorno e quando la guerra finì lui tornò per dirle che aveva trovato moglie in un’altra terra. E lei impazzì.
Si buttò da una rupe urlando il nome di lui.
La secondogenita, Margherita, crebbe sana fino all’età di dodici anni, poi si concesse ad un giovane pastore e prese una malattia proprio lì, da dove, poi imparai, nascono i bambini. Morì dissanguata in una sera d’inverno simile a quella in cui conobbi la fata del sorriso.
La terza figlia, Teresa, ebbe salute cagionevole fin da piccola.
Un inverno troppo freddo la mise a letto e non si alzò più.
La quarta figlia, mia madre.
D’animo mite ma di costituzione robusta aiutò mia nonna a sopportare tutte le disgrazie che la vita le aveva riservato.
A tredici anni si fidanzò con mio padre, il figlio del porta lettere.
Si sposarono ed ebbero una sola figlia. Io.
Ho un vago ricordo di papà.
Troppo piccola quando partì per la guerra. E troppo piccola quando ricevemmo la lettera che mai più sarebbe tornato.
Ma era stato un bravo figlio, e un marito premuroso, nonché un padre affettuoso, raccontavano.
Mi bastava questo per mantenere vivo un ricordo che nemmeno poteva essere mio.

Nonna per sbarcare il lunario si improvvisò una brava levatrice.
Esperta di erbe, per nulla schizzinosa, forte di stomaco, era donna capace di risolvere ogni situazione.
Aveva sempre accudito i nostri cavalli e aiutato le giumente a partorire.
E così pensò che avrebbe potuto farlo anche con le donne.
Prima di me, diverse centinaia di bambini avevano visto la luce tra le sue morbide braccia.

Quando le mani di mia nonna si piegarono ad uncino per l’artrite, mia madre già da tempo l’aveva sostituita nell’arte del far nascere bambini.
E lo stesso feci io con mia madre, quando venne il mio momento, perché tutto è scritto.
Ogni tanto, fin da piccola, la seguivo nelle case delle donne gravide per apprendere i primi rudimenti di quella che, presto, sarebbe diventata la mia arte.

Fino al giorno in cui Fernanda partorì i due gemelli io non mi ero mai innamorata se non degli occhi socchiusi della vita che nasce, prepotente e inquieta, dal ventre di una madre.
Non avevo mia conosciuto la passione che porta al concepimento.
Molti mi avrebbero voluto. Ma, tenace, li avevo sempre respinti.
Mi faceva impazzire il pensiero che per un instante di piacere avrei potuto soffrire come le donne che avevo sempre assistito nel parto.
Molte persino erano morte di dolore.

Come Fernanda quella sera.
Perché partorire due figli, morti, vuol dire morire.
Il cuore si ferma, l’anima urla, ma la voce è rotta in gola, soffocata dal pianto.
Non esistono parole. Non servono preghiere.
Non esistono erbe per alleviare il dolore dell’anima disperata.
Così pensavo io fino a quel giorno.
Fin quando non arrivò lei, con il suo delicato scampanellio ai piedi.
Ancora oggi - e sono passati davvero molti anni - il ricordo è chiaro come se fosse ieri.

Il profumo delizioso delle torte alla frutta mi aveva attirato in cucina.
Avevo lasciato la giovane Fernanda sdraiata a letto, a piangere sui copri inerti di quelle che per nove mesi erano state le sue speranze di un futuro di madre da sempre desiderato.
La trovai con le mani sporche di farina e il suo sorriso ipnotico.
Mi rassicurò sulla salute della ragazza e si complimentò con me per il lavoro svolto.
Poi mi disse: “Adesso và di là , pettinale i capelli in una lunga treccia e portala da me.
C’è un tempo per il dolore e la tristezza e un tempo per la gioia e le risate.”
Andai annuendo nella stanza da letto.
Accarezzai in viso Fernanda e le pettinai i lunghi capelli così come mi era stato ordinato.
La aiutai ad alzarsi e la sostenni sotto al braccio fino ad arrivare in cucina. Troppo stanca lei e con il cuore pesante per opporsi alla mia volontà di portarla, a forza, verso quel profumo di torte alla frutta, verso il calore di una nuova vita che stava iniziando, per entrambe, inconsapevole.
Si salutarono come due vecchie amiche che non si vedono da troppo tempo.


Fernanda si sedette sulla sua sedia preferita e guardando la tracolla che spuntava dal grembiule imbrattato di confettura e farina, fece un timido sorriso.
Allora la fata le porse una fetta di crostata.
Lei, timida, ringraziò e ne assaggiò, debole, un piccolo morso.
Mi guardò e iniziò a ridere.
Rideva a crepapelle, come fosse impazzita tutto ad un tratto.
Rise fino alle lacrime, contagiando non solo me, perfino i maiali nella stalla che cominciarono a grugnire e il gatto sulla poltrona che cominciò a miagolare senza posa.
La fata sorridendo si tose il grembiule e iniziò a volteggiare per la cucina come se fosse sul palco di qualche piazza animata da saltimbanchi.
E noi a ridere, con le lacrime agli occhi e i singhiozzi.
Nel giro di pochi minuti la cucina era diventata un andirivieni di gente mai vista che entrava e usciva ridendo a squarciagola e raccontando aneddoti esilaranti che rasentavano la follia.

Toccò a me.
Mangiai e risi e raccontai, storielle sconce che ora come ora mi vergognerei perfino a ripetere.
E incrociai il suo sguardo.
Profondo e invadente. Non mi dava tregua.
Smisi per un secondo di ridere.
Tutti smisero di ridere.
In pochi attimi la cucina si spopolò, e rimanemmo soli.
Io e quell’uomo mai visto.
Bellissimo nella forza del suo sguardo.
Non ci furono parole, solo respiri.
Mi trovai sporca di farina e calda in mezzo alle gambe senza sapere come.
Conobbi per la prima volta la passione vera.
La stessa che aveva fatto impazzire quella mia zia morta prima che io nascessi, che aveva torturato mia nonna quando aveva trovato suo marito con un buco di sangue al poso del cuore nella vigna, che aveva depredato mia madre di ogni gioia di vivere quando ricevette la lettera del non ritorno.
Due corpi nudi, tra profumo di torte ed echi di risate appena sfornate.
Se ne andò sorridendomi.
Mi stavo scrollando la farina dai capelli quando entrò la fata.
Mi passò una mano sul ventre e mi disse: “ Ricorda,i doni non si devono mai rifiutare, bambina mia.”
Aprì la tracolla e mi regalò uno dei suoi campanelli.

Oggi ho fatto nascere il quarto figlio di Fernanda.
L’ho preso in braccio un secondo per presentarlo alla mia bambina che è qui con me.
Lei gli ha sorriso come angelo, ha aperto la sua tracolla e gli ha regalato uno dei suoi campanelli.

A volte capita

martedì 14 ottobre 2008

Quando si svegliava la mattina con i seni piccoli, sapeva già che non era giornata.
A volte riusciva a passarci sopra, altre proprio no.
Come quella mattina.
Fuori faceva un freddo cane, il vento soffiava sbattendo violentemente sulle persiane, accostate per fare entrare un briciolo di luce.
Infastidita, infreddolita e con il seni piccoli.
Un’altra giornata di merda, forse.
Si era lavata e vestita velocemente ma con cura.
Senza ombrello era corsa giù dalla scale per non perdere l’autobus.
Il 31 passava sempre in anticipo.
Erano le 5.30.
A quell’ora Genova dormiva ancora.
Iniziava al lavoro un quarto alle sette. Ma non sopportava fare tutto di corsa.
Aveva bisogno di tempo per realizzare che tipo di giornata stava per vivere.

Da quando l’aveva incrociato, quel lunedì mattina, non aveva più potuto ignorare l’esistenza del suo sguardo.
Aveva cominciato a cercarlo senza posa, nella sua testa e tra le vie di una Genova che di solito non frequentava. Con costanza, persino nelle giornate coi seni piccoli.
A metà novembre l’aveva trovato su una banchina del porto, dove, aveva scoperto, dormiva la notte, tra un container e l’altro, cullato dal vociare amico dei marinai con cui divideva spesso birra e avanzi di cibo.
La mattina saliva sul primo autobus che collega il porto al resto della città.
Era il 31 e la prima corsa era alle 5.30.

Avrebbe voluto avere il coraggio di un gesto di disperato egoismo mosso dall’assurda esigenza di poterlo incontrare con continuità.
Avrebbe voluto che si trattasse di un oggetto qualunque, per comprarlo, o di una casa di quelle che ogni giorno mostrava a potenziali coppie felici, per abitarci.
Era un uomo di circa 35 anni, forse meno, con il viso segnato da una vita di insuccessi e di violenze.
Una profonda cicatrice dalla fronte arrivava fino al collo e gli divideva il volto a metà.
Mille volte avrebbe voluto domandargli come se l’era procurata, nella speranza di poter alleviare un dolore bruciante, forse già superato.

I loro sguardi si appartenevano dal lunedì al venerdì, per qualche secondo, sul loro autobus. Lei saliva e gli sedeva accanto.
In silenzio, finchè non si alzava per scendere quattro fermate più in là, lasciandolo solo nel suo viaggio senza meta.

Immaginava spesso di condividere con lui una quotidianità non reale, di fare l’amore con violenza sulla scrivania, in ufficio, mentre le altre erano fuori per la pausa pranzo e lui arrivava sorridente in doppio petto blu.

Bruciata dall’ossessione, come la pelle sotto il sole delle due di pomeriggio a ferragosto, aveva deciso di rompere il silenzio.
Era andata a letto presto quella sera, per svegliarsi riposata e in forma.
E si era svegliata in una di quelle mattine no, dai seni piccoli.
Si era lavata e vestita velocemente ma con cura.
Senza ombrello era corsa giù dalla scale per non perdere l’autobus.
L’aveva preso, anche se il 31 passava sempre in anticipo.

Ma lui non c’era, in quella mattina dai seni piccoli.
E nemmeno il giorno dopo e il giorno dopo ancora.
I loro sguardi non si mescolarono più.

Le piaceva pensare che si fosse innamorato di un’altra.
A volte capita.