Mi credevo fortunata, nonostante tutto, a volte.
Mi sedevo al fresco, cullata dal rumore delle foglie del grosso faggio, ad osservare il colore della memoria che cambiava d’intensità con il passare dei giorni.
Non era successo nulla di reale, forse. Ma vivevo come se fosse accaduto di tutto.
Questo perché quando raccontiamo a noi stessi una storia, spesso la raccontiamo seguendo le sensazioni verosimili prodotte dal ricordo e l’immagine che ne conserviamo non è sempre perfettamente coerente con quel che in realtà è accaduto.
Ci eravamo conosciuti in un pomeriggio di mezza estate.
Sporchi e sudati e con l’odore della carne arrostita alla griglia sui vestiti.
Senza nemmeno parlare ci eravamo presi per mano e avevamo cominciato a correre, stando attenti ai gradini formati dalle radici degli alberi che si allungavano dalla terra.
Il cartello diceva area griglia.
Erano tutti là. Ad ingozzarsi di costine di maiale e trangugiare vino scadente. Del resto non si possono bere buoni vini in un campeggio a ferragosto. Birra per qualcuno.
A dieci anni, dopo che di costine ne hai mangiato un po’ e ti sei divertito a sputare i semini dell’anguria più lontano possibile, non ti rimane che alzarti dalla panca di legno e cercare qualcuno che giochi con te.
Mi aveva trovata lì accanto che raccoglievo fiorellini con il mio vestitino a quadretti rossi. Gli stavo simpatica e lui a me.
Da quel giorno ci siamo presi per mano diverse volte. Spesso senza nemmeno rendercene conto. Come un angelo appariva al mio fianco sempre quando meno me lo aspettavo e nemmeno lo meritavo a dire il vero.
Tre anni senza nemmeno sentirci.
Poi all’improvviso alzo il telefono e lui è lì. Che mi aspetta. Perché lo sa che un giorno non potrò più stare senza di lui. Capitolerò e forse ci sposeremo.
Andremo in vacanza al mare e cucinerò per lui. Una volta all’anno forse andremo perfino a sciare, da soli o con gli amici , magari con i nostri bambini.
Potrebbe mettersi qualunque profumo addosso, ma per me odorerà sempre della carne alla griglia del nostro primo incontro.
Questa volta lo chiamo perché ho fatto uno dei miei soliti casini. Ci mettiamo d’accordo per pizza e racconti di vita consumata.
Alle otto mi passa a prendere.
La pizzeria che ci aspetta è la solita dei nostri fugaci incontri. Dista solo qualche isolato da casa, ma insiste per andare in macchina ugualmente.
Quando arriviamo lì di fronte tira dritto e non si ferma. Mi guarda con una luce strana negli occhi e un ghigno da bambino che la sta facendo grossa.
Scuoto il capo ma non domando. Tanto già so che non direbbe nulla.
Mi metto comoda sul sedile chiacchierando delle mie sventure, dell’ultimo fallimento amoroso e dei fiaschi lavorativi. Lui volge gli occhi al cielo e mi prende in giro.
Ci fermiamo dopo un’oretta di viaggio.
Riconosco il posto: da Gustavo.
È il mio ristornate preferito.
Cucina toscana. In onore dei nostri innumerevoli soggiorni tra i cinghiali della maremma. Vacanze da adolescenti spensierati tra la calma di Pereta e la morbida campagna di Scansano.
Lo abbraccio felice della sorpresa e urlo di gioia. Si tappa le orecchie con le mani. Ne approfitto e lo bacio.
Poi entriamo. Gustavo si ricorda sempre di noi. È un signorone con il marcatissimo accento toscano, giovale, con la faccia rotonda e carica di sorrisi che dispensa senza parsimonia.
Decide lui il nostro menù per non distoglierci dalle chiacchiere dei tre anni che ci hanno separato.
Pazzesco come a volte il tempo riprenda la sua corsa esattamente da dove era stata interrotta.
Lui è sempre il solito: fermo nella sua confusione. Non fa un passo e tutto gli arriva prima o poi, pensa.
Io corro come una matta da una parte all’altra. Prendo, o almeno ci provo, quello che mi piace, mi stufo e poi scappo lasciandomi alle spalle porte con cardini rotti che mai si chiudono completamente.
Quella sera era più affascinante di sempre.
Avrei voluto mangiare dalla sua bocca e bere dalle sue mani.
Mi sarei fatta accarezzare a lungo per dimenticare gli orrori della mia vita piena di errori e bugie.
Non si era mai fidanzato. Qualche avventura, ma niente di più.
Quella sera mi trovava irresistibile anche lui.
Sarà stato il Morellino di Scansano o la carne di cinghiale profumata al cioccolato che ci si scioglieva in bocca. Non lo so. E non lo saprò mai.
Sazi e felici tra abbracci e complimenti salutammo Gustavo promettendogli che non avremmo fatto passare altri tre anni alla prossima nostra visita.
In macchina ci baciammo con foga.
Le mani andavano dappertutto. Troppi anni senza permettere ai nostri corpi di conoscersi davvero.
Contenti che fosse arrivato il nostro momento.
Guidava impaziente, rincorrendo la notte per la nostra unione.
Mi piace ricordare spesso di come siamo entrati in casa già mezzi nudi, pronti per condividerci e gustarci. In silenzio, per non contaminare la melodia della fusione dei nostri respiri. Con gli occhi truccati di passione. La stessa che mi porto dietro oggi raccontandomi ancora quello che forse non è accaduto.
Il camion che ci travolse ci trovò mano nella mano.
Poi lo portarono via uomini vestiti di bianco, dentro un sacco nero. Tra le mie urla soffocate e il mio dolore struggente.
Lui che mai aveva inseguito nulla nella sua vita, fermo nella convinzione che tutto arriva a chi sa aspettare, quella sera aveva fatto uno strappo alla regola. Per me.
Aveva provato ad inseguirmi senza aspettarmi, per una volta.
Mi hanno tagliato la mano. Quella che mi teneva lui, sul cambio, mentre guidava.
Mi hanno tagliato la vita, ma non lo sanno.
Io vado avanti nella sregolatezza, correndo senza inseguire nulla.