Cinema

mercoledì 30 luglio 2008


Domenica sera cinema.
Questa volta tocca a te scegliere il film. Poca roba che stimoli la tua fantasia nelle sale in questo periodo.
La scelta è limitata. Tu non guardi horror, né film da quattordicenni in preda ad uno scompenso ormonale. Lui non guarda film di spessore perché non li capisce e si addormenta e russa.
E la tua serata al cinema diventa uno sgomitare continuo contro il suo braccio per farlo smettere.
Ancora non avete capito che forse dovreste andare al cinema separati.
Coltivare ognuno i propri interessi e lasciare all’altro lo spazio per fare altrettanto.
Perseverate nella ricerca di una condivisione impossibile.
Chissà che uno dei due prima o poi capitoli.
Certo non sarà lui. Dal momento che non rinuncia a nulla.
A differenza tua.
Fortuna ti è rimasta quanto meno la lettura.
Sulla quale ovviamente non potete scambiare opinioni perché lui non legge.

Decidi per un film fresco appena uscito nelle sale:
Points of view, la storia di un saxofonista che vive di musica trascurando moglie e figlia che finisce senza un soldo e cornuto. Con una vita da vivere che non desidera e che non riesce a migliorare.

Trama carina, attori discreti. Riesci anche a piangere.
Lui russa. E tu sgomiti contro il suo bracciolo, come previsto.
Alle 00.38 uscite dalla sala. Tu con gli occhi lucidi e rossi per il pianto, lui con la faccia stropicciata per la dormita.
Siete con la tua macchina per fortuna così almeno puoi decidere di aggiustare l’umore ascoltando un cd dei tuoi.
“Mi scappa da pisciare Tati” ti dice.
Ti fermi all’autogrill, imprecando contro la sua vescica e contro di lui che poteva andare al cinema a farla o tenersela fino a casa.
Ci vogliono solo dieci minuti per arrivare.
Ti fermi.
Lui scende e tu resti in macchina con la tua musica.
Lo vedi mentre si allontana e scompare dietro la porta rossa.
Non spegni nemmeno il motore.
Giri la macchina e te ne vai.



Sulla sua isola

martedì 22 luglio 2008


Si era presa ferie persino da se stessa.
Gelosa di quel passato che non sarebbe mai stato suo, nella difficoltà di accettare l’esistenza della sua vita, prima di Lei.
Soffriva per i ricordi che non avrebbe mai condiviso, per quelli che non poteva ricordare davvero.
Metteva un piede davanti all’altro camminando all’indietro, lontano da quel futuro di speranze che non doveva ma che, a volte, pareva essere un furto al passato.
Si barcamenava in quella odissea di rumori che la portavano al presente ogni volta che la sua mente cambiava strada per tornare indietro.
Molte delle cose che aveva le doveva al suo fascino ipnotico e ai modi suadenti, al suo sorriso fatto di denti bianchissimi e perfetti, consapevole di spalancare il paradiso a ogni moto di labbra.
Ora non sorrideva più tanto spesso. Non si emozionava più se le regalavano una rosa.
Era troppo concentrata su quel che era stato per rendersi conto della favola dei momenti che spesso andava perdendosi.
Tutto era iniziato con quel viaggio a Roma. L’unico vero viaggio della sua vita, diceva lei. L’unico che rifarebbe, sola, con una testa diversa ma con lo stesso cuore. L’unico che l’aveva fortemente cambiata, resa immortale come la città eterna, che le aveva dato uno slancio verso quel futuro da sempre desiderato, ma che l’aveva tenuta attaccata con una corda ad una grata da dove poteva osservare tutto a quadretti, attraverso le maglie della rete, senza interagire, mai.
Come quando stai su una moto, e vai a 200 all’ora incurante del pericolo, annusando l’aria, sentendola tra i capelli, nelle ossa, tra le dita, sulla pelle. La vivi ma non l’afferri. Forse nemmeno ci provi. Ed è giusto così.
Ogni novità era il riflesso di qualcosa che era già stato, di un sentimento già gustato forse mai fino in fondo.
Non sceglieva mai, per scelta. Non giocava al rilancio sulla sua vita.
Aspettava che gli eventi tornassero lì da dove erano cominciati per trovare la loro strada, senza fetta. Senza affanno. Senza senso.
Ferma immobile persino nel desiderio più profondo. Convinta che al momento opportuno le sarebbero spuntate branchie per respirare e pinne per nuotare sulla sua isola di ricordi futuri che piano piano sarebbe affondata nel mare del presente.
Perché qualcuno le aveva detto una volta che quando abbandoni il salvagente scopri che è l’acqua a sostenerti. Ma ancora non aveva trovato il coraggio di buttarsi e provare a nuotare per recuperare il tempo che inesorabile le scivolava tra le dita, ora.




La maschera di cera

venerdì 18 luglio 2008


Collegata a qualche cosa che nemmeno tu sai cos’è.
Te lo chiedi continuamente anche quando sai che qualcuno cercherà di darti delle risposte che non vuoi, credendo di farti stare meglio, forse.
Remi invano contro corrente. La zattera sulla quale ti trovi ti porta verso quello stato d’animo da cui provi a fuggire.
Hai sempre pensato che scappare non sia la soluzione migliore, che non sia una soluzione in realtà.
Ma questa volta non puoi farne a meno.
Non vuoi essere risucchiata da quel meccanismo che ti renderebbe un’ entità astratta, dentro. Coperta da maschere di cera che ti fanno sudare, fuori.
E quando sudi ricordi di essere viva. Di desiderare ancora qualcosa senza sapere esattamente se il desiderio sia lecito oppure no.
Prendi tempo mentre perdi il ritmo.
Non più vigile né attenta.
La maschera si scioglie e ne indossi subito un’altra.
Ti resta quella frazione di secondo in cui respiri davvero per capire se hai quel che vuoi.
Già conosci la risposta.
Quello che hai ora è solo la perdita di quello che hai avuto.
Remi con foga per evitare di essere travolta, ma la maschera ti si appiccica al viso e ti toglie il respiro, per un attimo.
Cancella il passato e i ricordi.
E rinasci.
Pur non essendo ancora morta.

Una sposa perfetta

venerdì 11 luglio 2008


Forse per un attimo hai creduto che con quell’anello al dito tutto sarebbe stato migliore.
Qualcuno ti aveva detto ‘diverso’ ma migliore no.
Hai voluto provare, l’hai fatto per te e per lei.
Hai provato a darvi quella chance che credevi di meritare dopo anni di lunga condivisione.
Te lo dicevano tutti che non era fatta per il matrimonio, una pazza scatenata da amare sempre ma da tenere con sé mai.
Per lei tutto era un gioco. Anche amarsi.
A letto un fuoco, tra frustini e giochetti recuperati nei vari sex-shop dei suoi giri per il mondo.
Un vulcano in testa. Sempre in eruzione.
Ferma mai.
Stabile mai.
Tranquilla mai.
Quando le hai chiesto di sposarti forse non ci credevi nemmeno tu, o forse si, ma non vuoi ammetterlo perché ti farebbe ancora più male.
Con quegli occhi languidi davanti alla pizza e all’anello di brillanti ti ha detto si.
Il giorno dopo è andata a rivenderlo per comprare una credenza etnica da mettere nell’ingresso di casa.
Quando sorridente ti ha raccontato quello che aveva fatto l’hai amata ancora di più.
Poi è arrivato il giorno del sì.
Tu all’altare, bello come il sole, emozionato come un bambino che freme in attesa di scartare i regali di natale.
È arrivata. Avvolta in una nuvola di candore che lasciava senza fiato.
Si mordicchiava il labbro superiore. Era tesa.
Non l’avevi mai vista cosi.
Sono bastati pochi secondi e la nuvola di candore si è dissolta tra le tue braccia e davanti agli occhi increduli dei quattro invitati prescelti.
Il bianco dell’abito si è fatto rosso.
Il coltello che si è conficcata nello stomaco era la sua promessa d’amore. L’unica che avrebbe impedito di farti del male davvero, che non ti avrebbe trascinato in anni di malattie di cuore e di testa in attesa del suo ritorno da qualche viaggio, l’unica che avrebbe davvero sancito la vostra unione per sempre.
Tua per sempre.
Nel ricordo, nella vita insieme che era stata, nell’amore promesso che non avrebbe potuto mantenere se non in questo modo.
Tu l’hai vista la sua anima che si alzava dal corpo e ti sorrideva stanca mentre usciva dalla chiesa dicendo per sempre…
Adesso lo sai che non era pazza come dicevano tutti.
Era solo pazza d’amore, per te.
Che non hai saputo amarla e comprenderla mai.






La faccia


Prima c’eri tu a colorare quello spazio nero. Poi ho messo un fiore.
È viola, forse é un ciclamino.
Almeno non mi guarda con quello sguardo indagatore ma evanescente al tempo stesso.
Non mi giudica una poco di buono né una rompiscatole solo perché domando cose che mi si dovrebbero dire senza che nemmeno io le chieda.
E piantala di fare quella faccia.
Lo sai anche tu che ho ragione.
Non puoi pensare che davvero le cose vadano bene quando non hai mai voglia di condividere nulla con me.
Alzati da questo buco nero e vattene. Lasciami da sola, lasciami quegli spazi che mi hai rubato e che alla fine non sapresti nemmeno come usare.
Viviti la tua vita e lasciami qui a godermi della mia.
Parti per quel viaggio che hai sempre voluto fare ma che non hai mai fatto.
Sollevati dal mio petto e vai e spacca il mondo.
Respira piano, basta affanni. Ne hai avuti e regalati troppi.
Ora, gambe in spalla vai verso quel futuro di promesse che da sempre immagini.
E ricordati, mentre sei in viaggio, che sei solo una mia foto.

[il racconto è stato pubblicato all'interno della rivista letteraria @phorism]




Io gioco


Lo sapevo.
Mi avevano scelto anche quella domenica.
Del resto ero una delle più nuove.
Giovane, soda, poco usurata.
Avevo già preso qualche calcio importante ma ancora ero in forma per competizioni di un certo livello.
E mi avevano scelto. Di nuovo.
Tra l’invidia di alcune compagne che ormai venivano usate solo negli allenamenti.
Quella domenica avrei voluto nascondermi dietro qualche materasso , lì nel magazzino dove ci tenevano, pur di non giocare.
Ma non sono mai io a decidere.
Speravo quanto meno di non essere la prima a scendere in campo.
Speravo che mi avrebbero lasciato tra le mani del quarto uomo, o consegnato a uno dei sei raccattapalle. Magari non a quello brutto e antipatico che stava tutto a destra, sotto il cartellone della Tim.
Immersa nei miei pensieri e sotto lo sguardo indagatore dell’arbitro mi trovai dopo poco a centrocampo.
Come non detto.
Un fischio e via con i soliti calci.

Mi ricordo la mia prima partita.
Ventidue baldi giovani che mi correvano appresso.
E la palla medica giù nel magazzino che invece nemmeno mi degnava di uno sguardo…strana la vita eh?
Agile passavo da un piede all’altro, leggiadra e contenta.
L’impatto con la rete poi… un sogno.
Come una tazza di acqua fresca quando stai boccheggiando dal caldo.
Un sollievo, una carezza inaspettata.
A volte persino arrossivo al tocco delicato delle forti mani del portiere di turno (capirete bene che non posso esprimere le mie preferenze data la posizione che ricopro.).
Ma da un pò di tempo tutto è cambiato.
In un anticipo giocato di sabato sera, buttata da una parte all’altra del campo come sempre, ero finita per la prima volta sugli spalti.
Nessuno era venuto a recuperarmi.
Un ragazzino timido si era avvicinato ma aveva desistito data la vicinanza di un poliziotto.
E così quella volta mi ero goduta lo spettacolo quasi per intero.
Ferma e in pace.
Vedevo le mie otto compagne che si avvicendavano affannandosi in cerca di gloria.
Volevano il contatto con la rete o la carezza del portiere.
Senza tregua.

A bordo campo si respira un calcio diverso.
Non lo sai finchè non provi.
Cambia la visuale,il punto d’osservazione.
Vedi cose che da dentro, mentre giochi, mentre corri, ti scivolano addosso,perchè corrono veloci con te.


Finta la partita c’era stata un po’ di baraonda tra i tifosi e con un incurante calcetto qualcuno mi aveva ributtato in campo.
Uno dei raccattapalle mi aveva raccolto e riportato a casa.
Sana e salva, ma con una coscienza diversa.
Forse avrei voluto che quel ragazzino mi prendesse e mi portasse con sè.
Ma mi avevano riportato al mio magazzino.

Ed eccomi qui. Anche in questa domenica.
Di nuovo per un secondo a centrocampo e poi sballottata da una parte all’altra da calci più o meno vigorosi che raccontano di problemi ai polpacci, alle ginocchia e di altre varie magagne di salute dei giocatori.
Risucchiata da un meccanismo di emozioni che nessuno riesce a comprendere fino in fondo.
A volte chi è seduto sugli spalti ad osservare vorrebbe scendere in campo per tirare quattro calci alla palla e provare a fare goal. Poco importa se non ci riesce, quanto meno ci ha provato.
E chi è in campo invece, e corre e corre, si affatica , e cade e si rialza, e tira calci alla palle e prova a fare goal e a volte ci riesce, forse non ci pensa nemmeno a sedersi sugli spalti ad osservare la partita.
Forse invece vorrebbe ma pensa sempre che non sia ancora arrivato il momento di fermarsi e godere dello spettacolo.
Rimanda ad un prossimo futuro quello che dovrebbe probabilmente gustare nel suo presente.
Io questo l’ho capito quel sabato sera degli spalti.
Del resto non si può vivere in panchina tutta una vita, o stare sempre seduti ad osservare gli altri che mettono a segno il nostro goal.
Ma nemmeno si può vivere una vita a centrocampo, tra gli incitamenti dei tifosi e sotto i riflettori di una domenica qualunque.

Finita la partita di oggi.
Anche questa domenica è passata.
Ho fatto il mio lavoro, in sintonia con i piedi degli altri e alla fine di tutto mi hanno riportato al mio posto, come sempre.
Non sono io che scelgo se scendere in campo oppure no. Se giocare oppure no.
Non posso decidere di rimanere accoccolata a bordo campo, senza entrare.
Ma voi che potete, fatelo!




[Il racconto è stato pubblicato nell'Anthology "La palla è rotonda" - AA. VV. edito da LAB (Prima edizione Luglio 2008)]

A colori

giovedì 10 luglio 2008


Non c’é più fretta né attesa quando il tempo diventa tuo complice.
Se lo ripeteva spesso.
Forse mai abbastanza, però
Credeva nelle coincidenze, nel fato, nella legge cosmica secondo cui nulla accade mai per caso.
Per questo a volte si trovava intrappolata in una serie di ragionamenti incomprensibili persino per la sua mente che li aveva partoriti.
Aspettava, in silenzio, il suo turno, osservando attenta le mosse degli altri , per costruire il suo piano ardito.
E pronta, al momento opportuno prendeva l’iniziativa.
Ecco. Il problema stava proprio qui: sbagliava sempre il tempo di reazione.
Aveva il maledetto vizio di guardare sempre in alto senza mai accontentarsi della soluzione più semplice, convita che solo osando si potevano ottenere grandi risultati.
Mai si voltava indietro, anche se si rendeva conto di aver sbagliato, certa che avrebbe trovato un'altra strada per arrivare alla sua meta.
Il suo lavoro era quello di cercare nuove idee negli occhi degli altri, rubando sguardi, per poi rivenderli nei suoi disegni.
Non credeva di essere una grande artista, ma si divertiva a farlo credere agli altri.
Frequentava, tra un pensiero assurdo e l’altro, la Scuola del fumetto, a Milano.
La frequentava a metà.
Seguiva solo le lezioni che le interessavano. E l’avrebbero bocciata per questo.
Per mantenersi vendeva tavole di ornato agli alunni del liceo scientifico Galilei e del liceo artistico Da Vinci.
La sera preparava il suo banchetto in Brera e aspettava che qualche giovane disperato passasse di lì per comprare le sue tavole o per commissionarle qualche nuovo lavoro.
La voce tra gli alunni si era sparsa in fretta, soprattutto tra quelli che, poco amavano disegnare.
Gli affari le andavano bene.
Niente delle sue opere rimaneva invenduto.
A mezzanotte, a volte anche prima, sistemava baracca e burattini e si avviava verso casa.
Proprio sotto casa il loro primo incontro.
Camminava distratta, parlando con la luna.
Gli era finita tra le braccia.
Un volto noto.
Lo guardava incantata senza dire nulla, inebriata da quel profumo di bagnoschiuma alla mirra, lo stesso che usava lei.
Cercava nella memoria qualcosa che potesse ricordarle chi era, ma niente.
Buio totale…
Forse si erano conosciuti in un’altra vita.
Forse era uno psicopatico che voleva violentarla e derubarla.
Forse era un suo fan che la inseguiva per avere un autografo.
Poteva essere qualcuno a cui doveva dei soldi, che aveva deciso di beccarla proprio nel momento della giornata in cui si sarebbe facilmente arresa, se non altro per la stanchezza che aveva in corpo.
O assomigliava al ragazzo che aveva incontrato al mercato del pesce qualche giorno prima?
La soluzione più probabile, che fosse un bell’uomo qualunque, e che per sbaglio i loro corpi si fossero scontrarti, non le piaceva.

Per tre sere di fila si incontrarono sotto casa di lei, senza finire uno nelle braccia dell’altro fortuitamente come la prima volta.
Poi in una sera che aveva deciso di restare a casa a disegnare, se lo trovò nel salotto. Stravaccato sul divano come se si trovasse a casa propria.
Lo osservò con attenzione estrema.
Volto noto.
Profumo:il solito di mirra.
Sguardo rubato al mare.
Si stava arrampicando sull’albero dei ricordi.
Per sapere chi era quell’uomo, fermo immobile sul suo divano.
Per la prima volta nella sua vita di artista e di donna, stava tornando indietro, per riesaminare il percorso effettuato, per cercare di cambiare punto d’osservazione.

Sul tavolo il suo fumetto preferito. Aperto.
Alcuni fotogrammi vuoti.
Mancava lui che aveva forse deciso per qualche sera di vivere a colori.



[il racconto è stato pubblicato all'interno della rivista letteraria @phorism.it ]

[nota del 1 agosto 2008: il racconto è stato pubblicato all'interno della rivista letteraria scrivendo.it - clicca qui per leggere il racconto e i commenti]